Caso Regeni e armi all’Egitto

Intervista al portavoce di Amnesty international Italia a proposito del rinvio a giudizio, da parte della Procura di Roma, di 4 ufficiali dei servizi segreti egiziani per la morte di Giulio Regeni. I familiari di Regeni hanno denunciato il governo per violazione della legge 185/90 per la vendita di 2 navi da guerra al governo di al Sisi.
Regeni. foto LaPresse -

Perché l’Italia vende due navi da guerra all’Egitto? Non esiste una legge (la 185 del 90) che vieta di fornire armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani?

Abdel Fattah Al Sisi
Foto LaPresse

L’evidente contraddizione è stata denunciata, non solo moralmente, ad inizio 2021 dalla famiglia di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano torturato e ucciso in Egitto nel 2016 in circostanze che rimanderebbero alla responsabilità delle forze di sicurezza statali egiziane. È quanto emerge dalla chiusura delle indagini operata dalla Procura della Repubblica di Roma con il rinvio a giudizio di 4 militari dei servizi segreti egiziani, accusati, a diverso titolo, dei reati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio.

I genitori di Regeni non hanno mai accettato di rinchiudersi in un dolore privato e di piegarsi alle ragioni della realpolitik, ma hanno chiesto, in maniera civile e pacata, alle autorità italiane di fare la loro parte per accertare la verità e i colpevoli dell’uccisione del loro figlio.

Non sono rimasti da soli, come dimostra la permanenza su tanti uffici pubblici dello striscione giallo di Amnesty che chiede “Verità per Giulio Regeni”. In questi anni, purtroppo, si è palesata una mancata collaborazione da parte delle autorità egiziane, accusate anche di depistaggio, fino alla decisione della Procura di Roma che ha chiuso le indagini il 20 gennaio 2021.

Non sappiamo, invece, come ha deciso di procedere la Procura di Roma nei confronti della denuncia per violazione della legge 185 del 90. La seconda fregata Fremm, costruita originariamente per la Marina militare italiana dalla società Fincantieri (70% a capitale pubblico), è stata consegnata a metà aprile al governo di al Sisi. E si tratta di un’operazione legata alla strategia per conquistare altre importanti commesse belliche in Egitto. Un linea di politica industriale coerente con quanto denunciato da Rete pace e disarmo circa il fatto che una parte delle risorse del Recovery plan è destinata a finanziare il settore delle armi, dove lo Stato è presente con il controllo di Fincantieri e Leonardo. Da tale società, ex Finmeccanica, proviene il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

In attesa di poter conoscere il testo definitivo del Piano di ripresa e resilienza, che arriverà alle Camere solo il 26 aprile per essere approvato entro fine mese, abbiamo intervistato Riccardo Noury, per avere un aggiornamento sulla questione Regeni, strettamente legata al caso di Patrick Zaki. Lo studente egiziano dell’università di Bologna, attivista per i diritti umani, è stato arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020 e, da quella data, è in uno stato di detenzione durissima. I suoi difensori accusano le forze di sicurezza egiziane di averlo sottoposto a torture. A nulla è valsa, finora, la mobilitazione in suo favore da parte dell’opinione pubblica internazionale. Il Parlamento europeo ha votato, il 18 dicembre 2020, una risoluzione di condanna mentre il senato italiano, il 14 aprile 2021, ha votato in maniera unitaria (con l’astensione di Fratelli d’Italia) un ordine del giorno rivolto al governo per la concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki.

Noury, a che punto stiamo con la denuncia dei genitori di Giulio Regeni circa la violazione della legge 185/90?
Dal punto di vista giudiziario non mi risulta che siano stati fatti passi in avanti, mentre per quanto riguarda il governo italiano lo scorso 10 aprile è partita dal porto di La Spezia la seconda fregata militare arrivata, dopo una settimana di viaggio, in Egitto. Una risposta che attesta nei fatti che consegnare armi e materiale militare a quel Paese sia una cosa buona e giusta.

Foto Cimaglia / LaPresse

Come si spiega la contradizione tra il voto del Senato, favorevole al riconoscimento della cittadinanza italiana per Zaki, e questa fornitura di armi a Il Cairo?
Si ragiona come se nei giorni pari si potesse parlare di diritti umani e in quelli dispari solo di affari. Senza citare termini clinici siamo davanti ad un’incoerenza enorme. È vero che sono due organi distinti: il Parlamento e il Governo. Ma coloro che hanno votato l’ordine del giorno, per avviare la concessione della cittadinanza a Patrick, fanno parte della stessa maggioranza che sostiene l’esecutivo Draghi.

La denuncia pubblica del governo da parte dei Regeni, per la violazione della legge 185/90, è stata considerata un eccessivo punto di rottura?
In verità bisogna dire che siamo in perfetta continuità con il passato. Non è cambiato nulla. Di fatto più governi hanno fatto di tutto, in questi anni, per scontentare le richieste dei genitori di Giulio. La denuncia sulla questione della fornitura delle armi l’ha solo ulteriormente ribadita.

Non esiste solo il capitolo delle armi, ma anche quello dei rapporti con l’Eni nel settore delle fonti energetiche. Alcuni osservatori collegano l’omicidio efferato del giovane ricercatore italiano a soggetti contrari ai nostri interessi geopolitici nell’area. Cosa pensa di questa lettura?
Dico che si tratta di letture extra giudiziarie. Tutte le narrative sui presunti mandanti lasciano il tempo che trovano. Adesso abbiamo l’opportunità, dopo l’udienza preliminare fissata il 29 aprile presso il tribunale di Roma, di avviare un processo che permetterà di fare luce su quello che noi da sempre definiamo un delitto di Stato. Di certo, sappiamo che le 4 violazioni dei diritti umani perpetrate contro Giulio Regeni (e cioè sequestro, tortura, sparizione e omicidio) sono state effettuate da persone che fanno parte dell’apparato di sicurezza egiziano. Per più di 5 anni le autorità egiziane hanno depistato, non collaborato e protetto gli imputati fino a rifiutarsi di fornire il loro indirizzo agli organi inquirenti.

Manifestazione per Regeni, Mauro Scrobogna /LaPresse

L’azione del procuratore del tribunale di Roma, Michele Prestipino, è molto importante ma il processo avverrà senza la presenza fisica degli accusati un aula. La loro contumacia (ingiustificata mancata presenza fisica nel giudizio) non rende il processo “simbolico”?
Direi proprio di no. La loro contumacia è una responsabilità completa per le autorità egiziane. In caso di condanna, la sentenza di colpevolezza non sarà solo simbolica, anche se è prevedibile che l’Egitto non accetterà la richiesta di estradizione da parte dell’Italia (ammettendo che ciò avvenga davvero). Resterà lo stigma internazionale verso dei funzionari dello Stato egiziano condannati per tortura e omicidio di un cittadino italiano.

Oltre il governo, sappiamo che esiste una ricca e coraggiosa società civile egiziana composta da persone che si battono per la giustizia e i diritti umani. Riuscite a mantenere rapporti con tali realtà?
Sono rapporti condizionati dal pericolo a cui sono esposti. Ogni giorno che passa siamo preoccupati per loro, in ragione della possibilità che vengano messi al centro di nuove inchieste e subiscano l’arresto per il loro impegno a difesa dei diritti umani. L’obiettivo del governo egiziano è quello di far tacere queste persone in un modo o nell’altro. Noi continuiamo a richiedere alle autorità egiziane di permettere alla società civile di esprimersi e di poter continuare a lavorare per i diritti umani in modo trasparente e pacifico. Un’attività che un Paese normale dovrebbe riconoscere come un’eccellenza e non una minaccia.

 

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