Caos post elettorale

Ogni attore in campo sembra lavorare per impedire la formazione di un qualsiasi governo. Compito difficile per Mattarella chiamato a mantenere il senso delle istituzioni e del bene comune. Tutti gli scenari sono possibili. Anche un ritorno al voto senza cambiare sistema elettorale
Sergio Mattarella

Rimbalza un po’ dappertutto l’eco delle parole pronunciate dal presidente Mattarella in chiusura del suo discorso per il 1° maggio, a causa della lettura politica che ne viene fatta. Rileggiamole: «Non mancano difficoltà nel nostro cammino. Tuttavia, dove c’è il senso di un destino comune da condividere, dove si riesce ancora a distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte, il Paese può andare incontro, con fiducia, al proprio domani».

Il cuore gettato oltre l’ostacolo dei veti incrociati che hanno provocato lo stallo istituzionale che come le sabbie mobili tiene prigioniero il Paese. Ma servirà a qualcosa? Dalla tenacia con cui ogni formazione politica insiste a coltivare la propria lettura delle cose, non si direbbe.

Chi più chi meno, i leader che hanno in mano il destino del governo assomigliano a bambini che hanno a che fare con un giocattolo troppo grande. Le formazioni politiche uscite meglio dalle urne non sono riuscite ad accordarsi, né fra loro né col Pd, e su questo esito non va taciuto che hanno influito le spinte contrarie di Berlusconi da un lato e di Renzi dall’altro. Il primo ha osteggiato con tutto se stesso (fino a ridursi a una pantomima dinanzi alle telecamere) gli sforzi di Salvini tesi a un governo col M5S, mentre nel frattempo pare continuino a svolgersi contatti sotterranei per valutare la percorribilità di un governo a trazione “Nazareno” (Pd e Forza Italia).

È di queste ore, poi, l’esito devastante per il Pd, del pollice verso mostrato via tv da Matteo Renzi riguardo il possibile dialogo col M5S, oggetto dell’incarico istituzionale dato dal Capo dello Stato al Presidente delle Camere (niente da fare, non c’è più religione). Quindi, se non si sa con certezza che Berlusconi e Renzi lavorano per accordarsi (ma se così non è, come leggere l’invito di Renzi a un esecutivo per le riforme?), si sa con certezza che entrambi lavorano per osteggiare un governo coi 5 Stelle, da destra e da sinistra.

Di Maio, dal canto suo, ha fatto la sua parte per accrescere confusione e incertezze. L’ultima: il video, improvviso e alquanto sopra le righe anche nei toni, col quale ha iniziato a chiedere di tornare al voto: non appare di immediata comprensione per i milioni di elettori che gli hanno dato fiducia. Così come gli attacchi a testa bassa a destra e a manca cui si sta dedicando.

Inizio di campagna elettorale? Può essere, ma pericolosamente giocata. Un sintomo della delusione che ha ingenerato infatti c’è già. A parte la sconfitta in Molise, prendiamo i dati delle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia: si sa che il M5S è sceso dal 24,56% del 4 marzo al 7,1% del 29 aprile, il che è già una bruciante sconfitta; ma se si va a valutare il dato in termini assoluti, ci si trova davanti a una caporetto: in meno di due mesi gli elettori della lista M5S in quella regione sono passati dal 169.299 a 29.104. È vero che le regionali sono tutta un’altra storia rispetto alle politiche e che ai pentastellati succede sempre di registrare una differenza notevole di consenso tra le due competizioni, ma se non si vedessero le dimensioni del crollo della lista (il candidato alla presidenza ad esempio ha raggranellato 62.775 preferenze) si finirebbe per farsi del male.

Vorrebbe dire non fare i conti col fatto che la comunicazione di Luigi Di Maio in queste settimane, dopo l’esordio brillante nell’elezione dei Presidenti delle Camere, ha via via teso laddove non doveva mai andare: mettere in crisi la propria affidabilità. Cose che si registrano senza allegria, trattandosi di un giovane leader alla testa del primo partito nazionale.

E Salvini? Isolato e impossibilitato a muoversi politicamente, rischia di restare prigioniero anche lui dei suoi no, innanzitutto di quello detto a un ipotetico governo “del Presidente”.

Ora, tutto il Paese che ha a cuore il Paese, trema. Perché prova a mettersi nei panni del Presidente Mattarella e si accorge con sgomento che il suo spazio di azione è terribilmente esiguo. Oltre al muro dei no a un governo di tutti, non potrebbe sciogliere subito le Camere sia per ragioni estrinseche (si va verso l’estate e il tempo è stretto anche per un voto a luglio) che di sistema: che senso avrebbe tornare a votare col famigerato “rosatellum”?

Ma per dar mano alla legge elettorale è necessario un governo: non può essere un “affare corrente” per il Governo Gentiloni (se non come extremissima ratio). Nel giro di consultazioni che farà nei prossimi giorni, se saranno scartate le ultimi esili ipotesi di governo politico (centro-destra con tutto o parte del Pd), il Presidente dovrà tentare di convincere la maggioranza dei parlamentari a dare la fiducia a un governo guidato da una personalità istituzionale, con un programma limitato, per votare a fine anno dopo aver messo al sicuro gli impegni internazionali che incombono e la manovra di bilancio.

Se non ci riuscirà, lo scioglimento a breve delle Camere sarà indispensabile, col voto a settembre ma senza aggiustamenti del sistema elettorale. E sapremo con certezza che siamo in mano a forze politiche che forse non sono nemmeno in grado di “distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte”; figuriamoci a sceglierlo.

 

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