Cannabis light e Cassazione

Qualche tempofa la Corte suprema è intervenuta stabilendo che la commercializzazione di prodotti derivati dalla Cannabis Sativa Light non è consentita
Un momento della manifestazione 'Million Marijuana March' a Roma, 11 maggio 2019. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Le Sezioni unite della Suprema corte, accogliendo il ricorso di un pm di Ancona contro il dissequestro delle merci di un commerciante, hanno dettato nuove regole in tema di commercializzazione di droghe leggere.

Alle Sezioni unite era stata rimessa la seguente questione di diritto: «Se le condotte di coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art. 1 comma 2 della legge 242 del 2016 e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L. rientrino o meno, e se si, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità delle predette legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa».

Le Sezioni unite al quesito hanno risposto negativamente precisando che «integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

Va premesso che dopo l’entrata in vigore della legge n. 242/2016 si è sviluppato rapidamente un mercato “secondario” di prodotti derivanti dalla canapa indiana.

Tale norma mirava a facilitare la coltivazione di canapa al fine di consentire l’uso di alcune parti ma, nel fare ciò, si è data la possibilità (quantomeno in via interpretativa) di commercializzazione di parti della pianta notoriamente contenenti principi attivi droganti. Inoltre la norma fissava un limite specifico di principio attivo entro il quale la coltivazione sarebbe da ritenersi lecita (oltre ad altre previsioni inerenti la certificazione dei semi utilizzati).

Da questo stato delle cose sono sorti molti negozi di “canapa light”.

La pronuncia delle sezioni unite della Cassazione sancisce ora un principio assai netto e di estrema chiusura, con l’inevitabile stop ai derivati della cannabis nei canapa shop così come nelle rivenditorie di tabacchi.

CANNABIS LIGHT IN 10MILA NEGOZI, LA PRIMA È ROMA

La decisione della Suprema corte ha subito riaperto la polemica sui canapa shop, oggetto della recente direttiva del Viminale che punta alla loro chiusura. «Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano», ha commentato Matteo Salvini. E molti esponenti di destra e centrodestra, a partire da Giorgia Meloni, hanno auspicato l’immediata chiusura dei negozi, nonostante il dispositivo specifichi che si integra «il reato di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa» ma salvo «che tali prodotti siano privi di efficacia drogante». I Radicali italiani osservano che «la legge 242/2016 che consente la coltivazione di canapa industriale, con il limite di thc allo 0,2%, non vieta espressamente la vendita di infiorescenze» e «in uno Stato di diritto, ciò che non è espressamente vietato dalla legge è lecito».

«Attraverso Weedo, la campagna antiproibizionista di Radicali Italiani stiamo tenendo i contatti con decine di imprenditori che nell’ultimo anno hanno subito sequestri, arresti e segnalazioni che si sono risolti nel nulla e che hanno avuto come unica conseguenza i danni economici alle imprese», ricordano. «Una guerra alla “droga” così al ribasso, non intacca minimamente il mercato illegale che continua i suoi traffici indisturbato, ma si abbatte solo su migliaia di imprenditori che hanno investito nella filiera e che pagano le tasse».

Al di là del dibattito politico la palla passa ora ai giudici di merito chiamati ad accertare, caso per caso, la sussistenza o meno dell’«efficacia drogante» dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, onde stabilire la rilevanza penale della relativa commercializzazione.

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