Caccia F35. La questione è più seria dei tagli

Il governo annuncia riduzioni negli acquisti senza rimettere in discussione le scelte strategiche della nostra politica estera. Urge un dibattito pubblico   
Esercito italiano

«Per essere cosmopoliti bisogna avere una patria». Cita Antonio Gramsci l’ammiraglio Di Paola mentre presenta il nuovo piano della Difesa alle commissioni riunite di Camera e Senato. Il ministro tecnico per eccellenza, già capo di stato maggiore e presidente del comitato militare della Nato, ha messo mano a un progetto di riforma più volte annunciato e sempre più necessario dopo l’abolizione del servizio militare obbligatorio.

La linea strategica adottata da tempo è quella di una nuova professionalità direttamente operativa e quindi maggiormente “usabile”. Il termine sta a indicare «il rapporto tra il numero di militari impiegabili in missioni internazionali e il totale delle Forze armate», come aveva spiegato, a suo tempo, Antonio Martino,allora ministro della Difesa. fautore di un corpo militare sempre più specializzato e separato dalla società civile.

La nuova configurazione dell’esercito non poteva che far emergere quel “tappo”, come lo ha descritto Di Paola nel 2006: un numero sovradimensionato di ufficiali e sottoufficiali che portano il costo del personale a pesare per il 70 per cento sul bilancio della Difesa. A 50 anni si è nel pieno di un itinerario professionale, si è già colonnelli in carriera o marescialli con titolo da cavaliere. Scoprirsi come esubero è sempre traumatico, come sanno bene dirigenti, impiegati e operai del settore privato. Ma nel caso dei quadri con le stellette, circa 30 mila per il momento, non è prevista cassa integrazione o mobilità, ma un piano decennale di ricollocamento in altri ruoli e l’accompagnamento verso la pensione.  

Meno soldati più tecnologie?

Il programma dei caccia bombardieri JSF F35 intanto resta in piedi anche se ridotto nel numero previsto dei velivoli da acquistare. Quanto al costo complessivo i numeri restano ballerini. La direzione nazionale armamenti parla di 80 milioni di euro per ogni aereo da combattimento, mentre la Corte dei conti canadese arriva alla stima ben diversa di 146 milioni di euro. In questi casi, il costo complessivo deve tener conto della manutenzione che svela il vero impegno finanziario (il doppio dell’acquisto) che uno Stato decide di assumere, dato che non può certo comprare mezzi così sofisticati per tenerli parcheggiati nell’hangar. Nel linguaggio degli specialisti si chiama «disarmo strutturale»: cioè meno cannoni ma sempre più costosi ed efficienti. Si acquistano così meno armamenti ma con costi che sono destinati a lievitare, grazie a una tecnologia sempre più all’avanguardia.

Resta confermata la scelta del fornitore statunitense Lockeed Martin contro un’altra corrente del settore, che avrebbe preferito il potenziamento dell’autonomia del consorzio europeo Eurofighter. Il produttore dei caccia Thypoon, apprezzati da clienti come l’Arabia Saudita, deve subire la concorrenza “interna” della Francia che, recentemente, ha vinto con i suoi Rafale la gara per la fornitura dei caccia bombardieri di un Paese in notevole espansione come l’India.     

Strategie industriali divergenti

Di fatto, come osserva Giandrea Gaiani, direttore del mensile Analisi Difesa, legarsi come subfornitore della Lockeed – che di F35 ne produrrà oltre 2400 esemplari per gli Usa e 800 per i Paesi alleati –, vuol dire rinunciare a ogni possibilità di concorrenza e finire per dipendere totalmente da quello che resterà l’unico fornitore mondiale di jet da combattimento capace di stare sul mercato. La Lockeed, organica alle direttive del Pentagono, manterrà riservata, in forza del segreto di Stato, l’accesso alla tecnologia più avanzata, come quella che rende i caccia invisibili ai radar. Obama, tra l’altro, sta bloccando molti progetti e acquisti che coinvolgono le aziende del gruppo Finmeccanica che, al contrario, sotto la presidenza Bush, avevano concluso affari significativi, anche come ricompensa per la fedeltà dimostrata dai governi italiani nelle operazioni in Iraq e Afghanistan.

 In questo scenario, gli appelli contro i caccia F35, come quello ecumenico proveniente da Firenze che abbiamo pubblicato, possono leggersi come posizioni moralistiche da mettere a tacere con l’annuncio di una riduzione tattica, imposta comunque da volumi di spesa oggettivamente non prevedibili, oppure come ultima occasione per ridefinire scelte industriali e geopolitiche di lungo termine, necessari per non perdere la «guerra futura», per usare le espressioni del generale Camporini, anch’egli ex capo di stato maggiore della Difesa.

La riconversione necessaria

Ciò che è davvero in gioco è perciò la definizione di “patria” e “cosmopolitismo” che il ministro Di Paola ha chiamato in gioco presentando il modello di difesa. Quale idea di Paese e di rapporti internazionali? Come va interpretato il ripudio della guerra affermato nella Costituzione? È chiaro che la questione degli aerei F35 è emblematica della necessità di rimettere in discussione le linee della politica internazionale. Quella che, in una “guerra non voluta”, ha portato, ad esempio, la nostra aviazione a migliaia di operazioni di combattimento sulla Libia.

Per questi motivi, i centri di ricerca e le associazioni, come le Acli, riunite nella “Rete disarmo”, chiedono un ampio dibattito parlamentate e nell’opinione pubblica: «Prima di fare qualsiasi scelta operativa occorre capire cosa intendiamo per “difesa” e quali sono gli obiettivi da raggiungere». Non è difficile rendersi conto di quanto sia povera o banalizzata l’attenzione di un confronto aperto su scelte destinate a segnare il destino futuro del pianeta.

Forse l’arma migliore, in questi casi, resta l’arte della distrazione di massa. Eppure modello di difesa vuol dire modello di sviluppo. Cosa produrre e per chi. Chiama in gioco l’urgenza di riconversione dell’economia, per uscire da una crisi figlia dell’ideologia che ha teorizzato di coniugare benessere e produzione di armi. Una sfida che riguarda soprattutto chi è chiamato a passare dall’enunciazione dei princìpi generali alle proposte concrete. Il problema non è la presenza consolidata delle lobby armiere quanto, citando Martin Luther King, il «silenzio dei giusti».    

 

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