Biden, gli Usa e la guerra

Domande su Biden. La crisi della democrazia in un mondo multipolare e la novità di un presidente di formazione cattolica al comando della superpotenza militare statunitense. Intervista a Massimo Faggioli, del dipartimento di Teologia e studi religiosi dell'Università di Villanova a Philadelphia.
Biden AP Photo/J. Scott Applewhite

Biden il “pacifista” dopo il guerrafondaio Trump? I numerosi sostenitori dell’ex presidente repubblicano affermano che, in realtà, Trump è stato uno dei pochi presidenti Usa, pur tra esibizioni di superbombe e uccisioni mirate, a non aver iniziato una guerra.

È sempre difficile e complesso il rapporto con la guerra da parte di quella che resta ancora la più grande superpotenza militare a livello mondiale. I primi gesti del nuovo presidente statunitense, come lo stop al sostegno dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, sembrano presagire una svolta a favore della pace?

Nei discorsi di Joe Biden abbiamo imparato ad ascoltare il finale con la rituale benedizione dell’America e l’invocazione della protezione delle “sue truppe”. Come si può leggere questa preghiera patriottica pronunciata dal secondo presidente di fede cattolica arrivato, dopo J.F.Kennedy, alla Casa bianca?

Esiste una filosofia, o meglio, una teologia di riferimento come, ad esempio, abbiamo già visto con Obama relativamente al realismo politico espresso del teologo Reinhold Niebuhr (1892-1971)? Sono questioni niente affatto retoriche o che riguardano la politica interna di quel Paese in considerazione della rinnovata fedeltà al Patto atlantico esplicitata dal governo italiano a guida Mario Draghi.

Lo abbiamo chiesto a Massimo Faggioli, professore del dipartimento di Teologia e studi religiosi dell’Università di Villanova a Philadelphia (Pennsylvania), che ha da poco pubblicato un libro su “Joe Biden e il cattolicesimo negli Stati Uniti”. Lo studioso ferrarese si è trasferito negli Usa ormai dal 2008 ma mantiene, con la sua attività culturale, uno stretto e interessante rapporto tra le due sponde dell’Atlantico.

 Si può rintracciare una visione teologica di riferimento nel presidente Biden?
Non credo che ci sia una filosofia o teologia di riferimento, almeno non ancora: vedremo nei mesi e anni prossimi. Contrariamente a Obama e Trump, Biden è un insider da quasi mezzo secolo, un frutto del sistema politico americano. La sua legittimazione come politico del partito democratico, in un Paese che si è avvolto nella bandiera del militarismo in forma nuova dopo il 2001, risiede anche nel suo appoggio alle campagne militari in Afghanistan e Iraq, e nel fatto che il figlio Beau (poi morto per un tumore nel 2015) avesse partecipato nei combattimenti in Iraq. Da questo punto di vista Biden esprime un curriculum classico sul versante della politica estera americana. Credo che Biden abbia imparato dai disastri delle campagne in Afghanistan e Iraq, ma è difficile attendersi una conversione radicale nella sua visione dei rapporti tra Usa e resto del mondo, e sulla proiezione militare della potenza americana nel mondo.

Le prime decisioni di Biden verso l’Arabia Saudita sembrano segnare un passo ragionevole verso la pace e il rispetto dei diritti umani, ma il Paese del Golfo resta strategico e in cima ai clienti di armi per il mondo occidentale. La cosiddetta Saudi Connection era molto salda già con i dem e poi Trump l’ha resa spettacolare. Cosa ci si può attendere in concreto?
Difficile dire: di sicuro la ridefinizione nei rapporti con Israele (meno intimi rispetto a quelli tra Trump e Benjamin Netanyahu) avrà un effetto anche sulla vicinanza tra USA e Arabia Saudita a cui Israele si è riavvicinata in anni recenti. Credo che ci sarà un passo indietro rispetto al cinismo della politica dell’amministrazione Trump nell’area, e il tentativo di riaprire il negoziato con l’Iran, ma in condizioni diverse da quelle in cui fu firmato l’accordo nel 2015. Il cambiamento rispetto a Trump sarà nell’approccio multilaterale, ma senza radicali cambiamenti rispetto ai punti fermi delle alleanze degli Stati Uniti nell’area.

Esiste quindi una visione di politica estera di Biden che non sia quella del segretario di Stato Toni Blinken in linea con la dottrina interventista del filosofo Michael Walzer?
È ancora presto per dire quale sia la dottrina Biden. Di certo la squadra a capo della politica estera di Biden ha un pedigree clintoniano, ma un ritorno al mondo unipolare degli anni Novanta è impensabile, e non solo per il ritorno del protagonismo di Russia, India, Cina. Di certo c’è anche un’America che ha molto più bisogno di ricostruirsi al proprio interno e che si trova di fronte a rivali strategici che non aveva trent’anni fa. Il fatto nuovo nel panorama globale è la crisi delle democrazie, anche quelle consolidate, inclusa la democrazia negli Stati Uniti: questo potrebbe indurre a più miti consigli quegli americani (di destra come di sinistra) che intendevano esportare la democrazia con interventi armati.

Infine, come si pone Biden e il variegato cattolicesimo Usa nei confronti delle posizioni del papa sulla guerra (superamento del concetto di “guerra giusta” in Fratelli tutti) che nel 2015, suo viaggio negli Stati Uniti, indicò come esempio da seguire Thomas Merton e Dorothy Day, noti per la radicale opposizione alle guerre?
Il cattolicesimo americano radicale-progressista che credeva in Bernie Sanders non si fida di Biden, sulle questioni economiche come anche sulla politica estera. Questo è un fattore di cui Biden dovrà tenere conto. D’altra parte, il cattolicesimo conservatore vede con sospetto (o peggio) tutti gli sviluppi dottrinali di papa Francesco (sulla pena di morte, ma anche sulla guerra giusta) che vanno nella direzione di mantenere o creare una distanza tra la dottrina della chiesa e un modello culturale e politico occidentale assunto come immutabile. Il magistero di Francesco su queste questioni e anche sulla guerra si rivolge e interpella in modo particolare il cattolicesimo negli USA, che si trova molto diviso al suo interno. È un fatto interessante che Francesco non si sia trovato, come invece Giovanni Paolo II, di fronte alla necessità di pronunciarsi su un conflitto armato iniziato dagli USA – se si eccettua l’intervento pronunciato alla vigilia di quello che poteva essere l’attacco americano in Siria, il 7 settembre 2013.

 

 

 

 

 

 

 

 

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