Bellini e l’amor puro

Vincenzo Bellini, La Sonnambula. Roma, Teatro dell’Opera. Capisco perché Wagner stimasse Bellini. Il Catanese possedeva una dote che a lui difettava: la purezza. L’idillio boschereccio, anno 1831, ove Amina, sonnambula senza saperlo, viene creduta infedele dal geloso Elvino, soffre quasi ad impazzirne, fino alla riabilitazione esultante, non è romanticume. La tessitura orchestrale dai colori delicatissimi e al contempo caldi, i pizzicati degli archi, gli interventi di corni e clarinetti creano e accompagnano un’atmosfera di incanto da primo eterno amore. Innocenza, palpitazioni, abbandoni si susseguono in arie duetti concertati di aristocratica eleganza: mai una sbavatura, una nota inutile, mai in orchestra un che di troppo o di stonato. La melodia – intesa come purissima emissione dell’anima – qui ondeggia in ascensioni lunghissime, tocca cime spirituali ma al contempo fermamente umane. Musica a prima vista facile, in realtà ingannatrice perché richiede controllo vocale e orchestrale, abilità scenografica e recitativa, scelte registiche che non offendano la classicità romantica dell’idillio. L’edizione romana, vedeva le scene e i costumi tradizionalmente leggiadri di Alfredo Troisi, la regia delicata di Pier Francesco Maestrini, e la direzione di Bruno Campanella, il quale, con tempi rallentati e contemplativi, ha certo aiutato i cantanti, ma non forse l’orchestra da un certo colore opaco, e da momenti di imprecisione (anche del coro). La protagonista Cinzia Forte è stata credibile sulla scena, abbastanza a suo agio in una parte sublime ma impervia (ma la voce potrebbe diventare più fluida); bravo il basso Vincenzo Capuano; mentre il tenore Dmitry Korchal ha gigioneggiato e sforzato, purtroppo scordando la grazia ed eleganza belliniana che con lo studio potrà acquisire. Pubblico conquistato dallo spettacolo e da una musica che si desidera subito riascoltare. IV FESTIVAL MUSICA E ARTE SACRA Quattro basiliche romane per un festival che riesplora il sacro con grandi interpreti. A San Giovanni in Laterano, Paolo Olmi dirige il rossiniano Stabat Mater. L’eco delle dispute se un operista come Rossini possa sentire il sacro in modo appropriato suona retorica, data la poesia del brano, toccante, tenero eppure nobilmente vocalistico. Il quartetto (Lucia Aliberti, Francesca Provvisionato, David Alegret e Manrico Signorini) è abbastanza affiatato insieme all’orchestra e al coro pastoso. Piace la direzione sostenuta, ma senza incalzi, libera, di Olmi. A San Paolo fuori le mura i Wiener Philarmoniker e i Wiener Singverein diretti da Seiji Ozawa in Bruckner (Nona Sinfonia e Te Deum). Ozawa, 70 anni sotto la zazzera bianca, rimane un folletto fantasioso ma precisissimo nella direzione di un lavoro dove preghiera, rimpianto e senso formano un testamento accanto al ruspante Te Deum. I Wiener sono i Wiener: caldi, attenti, gioiosi. E con Ozawa a loro agio. Musica grande, prestazione eccellente. Pubblico attento come in una liturgia.

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