Autocritica di un critico musicale

È un’estate come tante. Con le grandi uscite discografiche rimandate a settembre, gli immancabili tormentoni a farne da effimera colonna sonora, i concertoni e i festival a sfamare la voglia di musica dei vacanzieri e degli oppressi dalle afe metropolitane. Di che scrivere allora? Forse solo un “mea culpa” autobiografico.

Mi occupo di musica da più di quarant’anni, e scrivo regolarmente del mondo musicale da quasi altrettanto tempo. Giorni fa m’è capitato di vedere un bel documentario sulla fine dei Clash, una band topica degli anni Ottanta che mi capitò di seguire e di vedere dal vivo. Mi ha dato da pensare. Soprattutto a questo strano mestiere, dove troppo spesso le passioni si mischiano con le analisi ponderate, e dove, pur essendo parte estremamente laterale d’un microcosmo, tutto il sistema fa in modo di fartene sentire parte integrante.

È lì che nascono i problemi e le sviste, anche se occorrono decenni per rendersi conto che in questo piccolo mondo post-moderno, come in qualunque altro ambito creativo, occorrerebbe molto più tempo per capire davvero ciò che è importante, e per distinguerlo da quel che è solo cronachetta spicciola, un surrogato d’arte asservita a un ecosistema produttivo. Frank Zappa una volta disse che «il giornalismo musicale è fatto da persone che non sanno scrivere che intervistano persone che non sanno parlare per persone che non sanno leggere», (un’affermazione che usai come apertura di un mio libro di storia del rock). Anni dopo Bono Vox rincarò la dose: «Il guaio della gente è che non distingue: i musicisti son persone normali, è la loro musica ad essere straordinaria. La gente non ha ancora capito che siamo degli imbecilli». Ecco, il guaio nostro è che abbiamo osannato l’uno e gli altri senza alcun distinguo, e li abbiamo quasi sempre assolti, con misericordia fors’anche esagerata.

Oggi, col senno del poi, mi pento di molti superlativi sbrodolati, e mi rammarico per non aver saputo ricondurre certe pochezze alla loro reale dimensione. In questo, se non altro, non sono poi troppo diverso dalle stelle di cui mi sono occupato in questi anni. La verità è che quello del critico musicale sembra un bel mestiere finché non ti svegli e capisci che stai quasi sempre parlando di sciocchezze e di gente che non si merita la definizione d’artista, perché i più non sono che mestieranti, in preda – come quasi tutti, del resto – dei loro ego ipertrofici, delle loro debolezze e delle loro saccenze, molto più che travagliati dalle febbri indomabili del  talento; così come noi non meritiamo la definizione di “critici”, perché siamo solo eterni ragazzini innamorati, quasi sempre di troppo piccole cose.

Ma un giorno ci si sveglia: si può buttare tutto via, magari chiedendo scusa – oops, m’ero sbagliato -, o guardare in faccia la realtà e dirsi che sì, anche l’analisi del presente che offrono certe canzoni ha un senso – purché lo si relativizzi -, e che tutto passa, e quel che oggi sembra un miracolo, domani potrebbe apparire come un semplice sbuffo di vapore. Perché anche questa pervicace tendenza a mitizzare ciò che è stato e ciò che abbiamo vissuto è, a sua volta, un abbaglio.

Così è il successo, così è il baluginante mondo del pop (e del rock: alla fine lo si capisce che sono la stessa cosa), e così siamo anche noi che su questo mondo campiamo, più o meno a fatica, più o meno onestamente. Sì, è proprio un mestieraccio strano. O meglio, un mestiere come un altro.

 

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