Austerità. Parola alla difesa

Benedetto Gui, docente di economia politica all’università di Padova immagina un dialogo, sotto forma di processo, sulle politiche europee ed italiane adottate per fronteggiare la crisi economica di vari Paesi del vecchio continente. Commenta

L’austerità ha pochi amici, ultimamente. Nella campagna elettorale italiana contro le politiche di rigore nella finanza pubblica si levano voci sempre più forti, sia da sinistra che da destra. Come se non bastassero le proteste provenienti dal Sud dell’Europa, dove la disoccupazione tocca i livelli più alti degli ultimi decenni e il potere d’acquisto delle famiglie ha subito molte sforbiciate, ora le critiche cominciano ad arrivare anche da Nord, dove invece la crisi ha colpito poco o niente (ma potrebbe essere in vista). Anche il presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schulz, recentemente, ha dato alle politiche di rigore un «voto di insufficienza», nel senso che quelle politiche non bastano a rimettere in sesto l’Europa. Di fronte alla prospettiva di una condanna a furor di popolo dell’austerità, propongo ai lettori di concederle almeno un regolare processo, breve, con tanto di pubblico ministero in toga. Articolerò così questo contributo con un Pubblico ministero (PM) e un’imputata, l’Austerità (A).

PM: Ammette che al suo apparire i posti di lavoro spariscono e le famiglie impoveriscono?

A: «Non è vero, i miei effetti, sotto opportune condizioni, sono esattamente opposti, ma si vedono nel lungo periodo».

PM: «Nel lungo periodo saremo tutti morti», diceva Keynes. Piuttosto, sembra che il suo arrivo acceleri la morte…

A: «Ammetto di essere, nell’immediato, una medicina dolorosa e talvolta anche debilitante (qualcuno mi ha  paragonato alla chemioterapia). E ammetto anche che nel dosaggio del farmaco c’è scivolata dentro una quantità eccessiva di tasse, piuttosto che di tagli di spese. Senza di me, però, non c’è speranza di cambiamento quando un Paese ha perso la fiducia dei suoi finanziatori. Guardate com’è diminuito il tasso di interesse che lo Stato italiano deve pagare a chi gli presta denaro: oggi è di circa tre punti percentuali più basso rispetto all’autunno 2011, e guardate che una differenza del genere, se continua nel tempo, vale 60 miliardi di euro di interessi all’anno, una cifra più grande del disavanzo pubblico». 

PM: « E’ brava a trovare gli argomenti a Suo favore e a nascondere quelli a Suo sfavore. Quando Lei arriva è come un secchio d’acqua gelata sull’attività economica perché significa meno produzione, meno redditi e quindi meno entrate fiscali. Al contempo aumenta la spesa pubblica perché più gente senza lavoro significa più sussidi di disoccupazione e più indennità di cassa integrazione, cioè maggiori spese per lo Stato. Basta guardare cosa è successo quest’anno. Nonostante tutti i sacrifici ci ritroviamo più indebitati di prima…»

A: «Vostro onore, quando un’impresa è indebitata, anche perché i dirigenti si pagano dei lauti stipendi, crede che le banche siano disposte a finanziare un ampliamento dell’attività solo perché c’è un piano di sviluppo che parla di prospettive mirabolanti? Neanche per sogno! Prima vorranno vedere un bel taglio a quegli stipendi e a tante altre spese. Poi, una volta risanata la gestione corrente e ripristinata la fiducia, allora si potrà parlare anche di nuovi prestiti».

PM: «Un intero Paese è più complicato di un’azienda. Se la pubblica amministrazione non spende, se i consumatori, spaventati e impoveriti, non consumano, se le imprese, supertassate e in preda al pessimismo, non fanno investimenti, l’economia si avvita su se stessa. Lei, signora Austerità, è una vera sciagura…»

A: «Se mi avessero lasciato operare da sola, dopo una febbre iniziale avrei risanato il paziente Italia. Il problema è che contemporaneamente in Spagna è arrivata mia cugina Austeridad, in Irlanda sua sorella Austerity, e così via in mezza Europa. Lo ha riconosciuto anche il Fondo Monetario Internazionale: è un errore applicare il rigore contemporaneamente ad un pezzo di mondo troppo grande. Se in Italia si vendeva di meno, le nostre imprese sarebbero andate a cercarsi i clienti fuori dalle frontiere – e lo hanno fatto – ma in troppi altri Paesi attorno i compratori erano spariti dalla circolazione».

PM: «Non cerchi di scaricare le Sue colpe su altri…»

A: «Invece è proprio questo il problema. Siamo in un’unione monetaria, per cui un Paese che deve rimettersi in sesto non può neanche svalutare la sua moneta per riguadagnare competitività. Allora i conti tornano solo se i Paesi in buona salute e con un surplus di vendite all’estero sostengono il risanamento spendendo di più. E se Germania o Olanda non volevano spingere l’acceleratore a casa loro, almeno avrebbero dovuto accettare che l’Unione finanziasse la spesa delle nazioni in difficoltà con gli euro-bond».

Lascerei al lettore la parte del giudice in questo processo, chiedendogli scusa se ho usato toni un po’ scherzosi su argomenti in realtà molto, troppo seri. In questo modo forse, le situazioni si riescono a raccontare meglio.

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