Attivare l’anti‒razzismo 2.0

Aumentano gli episodi di intolleranza, discriminazione, xenofobia accanto a buone pratiche di integrazione. Gli antidoti per superare la paura e immettere nel tessuto sociale idee ed esperienze costruttive. Nostra intervista al ricercatore Stefano Pasta del Centro di ricerca interculturali Università Cattolica di Milano

La domanda è mal posta e generica, ma l’Italia è un Paese razzista?

Non è un fatto nuovo per il nostro Paese. Istinti razzisti e pedagogie d’odio sono stati presenti anche nel passato e il nostro è certamente un Paese razzista in alcuni aspetti, ma senza generalizzazioni. Il grande tema sottotraccia è l’accettazione sociale del razzismo che, in qualche modo, si vuole normalizzare. Rispetto a qualche anno fa aumentano i produttori di istanze e pedagogie razziste. Penso, per esempio, al tema dei social media ma non solo. Se prendiamo uno dei razzismi più forti, l’antiziganismo, verso le popolazioni Rom e Sinti, notiamo che, negli anni dell’emergenza nomadi, dal 2008 al 2011, ha avuto un picco sui media più importanti. Se ne parlava tutti i giorni, ora molto di meno e, spesso, in siti che diventano virali con tante fake news. Negli ultimi anni, invece, ha avuto in Europa una maggiore rilevanza la questione dei profughi vissuta in modo xenofobo, con muri, barriere, fili spinati che fomentano un discorso d’odio più o meno consapevole che porta all’accettazione sociale del razzismo. D’altro canto esistono migliaia di persone, in Italia e in Europa che edificano un Continente diverso. Entrambe le realtà coesistono. E, cercando il razzismo 2.0 in rete ho trovato, al contrario, tante reazioni al razzismo e se descrivessimo un Paese devastato dal razzismo ne descriveremmo solo una parte.

Più se ne parla, più i media amplificano le notizie negative, più non si rischia di alimentare e normalizzare il fenomeno del razzismo?

È sbagliato legare la normalizzazione del razzismo ai media sia che siano i social che altri mezzi di comunicazione come giornali o tv. Tante volte i comportamenti razzisti nel web non riflettono un pensiero comune condiviso. Nel ‘900 l’associazione mentale più forte del razzismo rappresentava una persona nera come una scimmia con una banana. Sono le stesse immagini usate in un comizio a Treviglio contro la Kienge (Kashetu Kyenge, detta Cécile, una politica italiana di origini congolesi già ministro dell’Integrazione nel governo Letta  ndr), dal politico leghista Roberto Calderoli che aveva detto: «Ogni tanto, smanettando con Internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Eppure l’Aula del Senato ha votato dicendo che non ravvisava istanze razziste in questa associazione di immagini, anche se, successivamente, la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso del Tribunale di Bergamo che aveva sollevato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato. Per cui Calderoli non può godere della “insindacabilità” nell’esprimere le sue opinioni.

Dare la colpa solo ai media è deresponsabilizzante. Il problema è che si fa strada un discorso di pedagogia popolare razzista implicita che riemerge favorito da un clima che non vede così grave fare un’associazione tra un africano e una banana. Questo è un altro elemento di ritorno esplicito del tema della razza.

manifestazione anti razzista

Si potrebbe parlare di un razzismo culturale che passa anche dalla non conoscenza della nostra storia perché in realtà tutti noi europei discendiamo dagli africani, da quell’homo sapiens che, partendo dall’Etiopia, è giunto in Europa, circa 45 mila anni fa, soppiantando, per cause ambientali, l’uomo di Neanderthal da 300 mila anni unica forma umana che viveva nella nostra terra. «Noi abbiamo – scrive il biologo Guido Barbujani in Gli africani siamo noi – la fronte verticale, il mento e la testa schiacciata su retro. Chi ha queste tre caratteriste è africano. Il cranio di Neanderthal è più grosso, allungato all’indietro, la fronte è più bassa e non c’è mento». Si tratta di ignoranza scientifica?

In questo caso non parlerei di ignoranza. Calderoli o il compagno di classe che fa battute razziste non pensano realmente che una persona africana sia una scimmia vestita in modo elegante, ma parlerei di deresponsabilizzazione dello stare nello spazio pubblico. Il problema è che in fondo si sa che si può dire una cosa del genere. Neanche il razzista che utilizza immagini forti è convinto della scientificità di quello che sta dicendo. Lo fa condividendo un articolo xenofobo sui social o battute antisemite. Non si prendono troppo sul serio e lo scherzo razzista diventa una forma di ironia e di divertimento. Si tratta di atti di deresponsabilizzazione che contribuiscono, a furia di ripeterli, all’accettazione sociale del razzismo come un fatto normale. Del resto l’Italia nella sua storia non è esente da ideologie razziste legate a doppio filo alla stessa deriva del segregazionismo razziale negli Usa, nella Germania di Hitler, fino all’apartheid del Sudafrica. Sono sistemi di pensiero che sono evoluti in sistemi politici e giuridici. Il fascismo teorizzava su basi scientifiche fantasiose la superiorità di una razza. Nel secondo dopoguerra, anche se le istanze non si escludono l’una con l’altra, si passa da una superiorità su erronee basi biologiche ad una superiorità su base culturale con l’assunto che siamo troppo diversi per vivere insieme. La superiorità diventa una superiorità culturale. E questo è anche un fenomeno degli ultimi anni dove  riemerge il tema della razza.

Che tipo di antidoti culturali occorrono per superare la paura del diverso. Come si possono iniettare nel tessuto sociale?

Partire dalla consapevolezza che esiste un Paese che normalizza il razzismo, ma allo stesso tempo ci sono tanti giovani che sono pronti a impegnarsi in azioni concrete e differenziate per ogni tipo di accoglienza, anche 2.0. Rappresentano un capitale anti razzista che non possiamo permetterci di sprecare e che va valorizzato suscitando in rete reazioni positive. Nei social, penso sia importante prendere posizioni forti per segnalare i razzismi 2.0, ma più che rispondere all’autore di istante razziste vale la pena valorizzare idee ed esperienze costruttive per non alimentare un fenomeno che diventa generatore di consenso politico. Inoltre bisogna imparare a riconoscere le varie tipologie di razzismi e le reali intenzionalità. Per esempio riguardo una battuta razzista, un conto è se sto parlando a una persona con forti intenzionalità pedagogiche, un conto è se sto parlando ad un bambino che fa la battuta antisemita. In entrambi i casi bisogna attuare delle consone strategie educative di risposta. La grande sfida è l’educazione al web 2.0 perché non basta essere nativi digitali, essere della screen generation. Non basta nascere in una società multischermo ma occorre educarsi alla cittadinanza digitale, interculturale per assumere comportamenti corretti.

 

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