Attila il magnifico

Fino all'8 gennaio al teatro alla Scala di Milano un suggestivo allestimento dell'opera di Verdi con la regia di Davide Livermore e la direzione di Riccardo Chailly.

Non capita spesso di assistere ad una rappresentazione in cui la modernità dell’allestimento coincida con la modernità dell’interpretazione musicale. Ciò risulta possibile se c’è una armonia d’intenti raggiunta, anche sofferta forse, tra regia e direzione. In questo caso tra il regista Davide Livermore e il direttore d’orchestra  Riccardo Chailly. Parliamo dell’Attila di Verdi che ha aperto il 7 dicembre la nuova stagione al Teatro alla Scala di Milano, ripreso in diretta da Raiuno e visto da migliaia di persone. Certo, assistervi dal vivo è altra cosa, perché tutto suona quanto mai  “vero”.

L’opera del giovane Verdi, presentata il 17 marzo 1846 alla  Fenice di Venezia e fatta spesso passare per lavoro “patriottico e risorgimentale” per alcuni versi allusivi, è in realtà incentrata sul personaggio di Attila. Non un guerriero crudele e il conquistatore soltanto, ma un essere umano con una sua maestà, ingannato sia dal generale romano Ezio che dalla guerriera Odabella che, nuova Giuditta, lo ucciderà per vendicare la morte del padre e salvare il popolo. Non prima che l’Unno abbia avuto un incubo terribile in cui gli appare un vecchio minaccioso che poi si incarna in papa Leone, che lo ferma davanti a Roma.

Certo, al personaggio del re tiene testa drammaticamente e vocalmente solo la “vergine guerriera”, un sorta di walchiria italiana dalla tessitura vocale asperrima, capace di far presentire quella della futura Lady Macbeth. Poco significativa, invece, la figura di Foresto, sospeso tra l’amore geloso ad Odabella e la congiura contro il re: un eterno indeciso. A Verdi forse risultò antipatico come l’infido generale Ezio.

La musica è bella, spesso molto bella, accanto  a momenti, diciamo così, “di passaggio”. Verdi raggiunge un culmine  nell’incubo notturno di Attila, che viene dopo quello di Nabucco e prepara quello di Macbeth, ma ha già nella bellissima aria “Mentre gonfiarsi l’anima” con violini e violoncelli che si aprono sulla larga frase patetica “In me tai detti suonano”, un momento di grande ispirazione e bellezza melodica.  Non solo arie, ma tocchi strumentali raffinati come in “Dagl’immortali culmini” del baritono Ezio e nella descrizione dell’alba,  il primo squarcio naturalistico verdiano.

Accanto a questi brani, il tono dell’opera è epico al furor bianco, ritmi vorticosi, accompagnamenti balenanti con grande intervento di ottoni, cori celesti e terrestri e danze “padane”, simpaticamente “barbariche”.  Verdi ha un impeto ruggente che trascina la partitura verso la fine in densi chiaroscuri, che non impediscono la ricerca dei colori strumentali. Questo è stato il merito precipuo della direzione di Chailly che ha rivelato – è il caso – la ricchezza cromatica dell’orchestra (splendida la scaligera) con un giusto fuoco insieme a tocchi aerei, delicatissimi. Concede ai cantanti-attori di “cantare”. E c’è un bel cast: dalla virtuosa e drammatica Odabella di  Saioa Hernàndez, al maestoso Attila di Ildar Abdrazakov, dal musicale Ezio di George Petean al Foresto scattante di Fabio Sartori. Perfetto,di più non si può dire, il coro diretto da Bruno Casoni.

E veniamo alla regia. Spettacolo con effetti speciali molto efficaci, certo, quest’Attila, con echi di cinema (Rossellini, Cavani, peplum), di pittura – l’affresco di Raffaello con la scena di Attila e Leone diventa “vivo” – proiezioni filmiche (le stragi del Vietnam e di guerra) e video cangianti, movimenti di massa equilibrati. Spettacolo, dunque, multimediale contemporaneo. Ma la bravura del regista, che conosce e ama la musica, è quella di “lascia lo spazio e il tempo  ai cantanti di cantare”, cosa ovvia, ma che sembra una rarità. Così la musica ridiventa la protagonista di un lavoro fiammeggiante e virile, un quasi-capolavoro da far conoscere e amare. Grazie alla sintonia fra regia, direzione e interpreti. Repliche fino all’8 gennaio.

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