Armi, profughi e la guerra nel Kurdistan siriano

L’Europa appare impreparata davanti all’invasione turca del Kurdistan. Troppi interessi impediscono di fermare l’intervento militare denominato “primavera di pace”. Ma l’Italia può fermare l’invio di armi destinate ad alimentare il conflitto. L’istanza di Rete disarmo al ministro degli Esteri Di Maio.
AP Photo/Petros Karadjias

Minacciata e attesa da tempo, come ha messo in evidenza Bruno Cantamessa, l’offensiva militare “Primavera di pace” lanciata contro i curdi siriani dalla Turchia nel Nordest della Siria sembra aver trovato impreparati i governati europei. Ma è proprio verso l’Europa che si rivolge il presidente turco Erdogan.  In caso di condanna e sanzioni minaccia, infatti, di lasciare liberi 3,6 milioni di profughi siriani, finora trattenuti in Turchia in cambio di oltre 10 miliardi di euro versati dal Vecchio Continente.

Il presidente del Parlamento europeo, l’italiano David Sassoli, ha ribadito che «la comunità internazionale, l’Unione europea, le sue istituzioni, chiedono che questo intervento si fermi e che si discuta la possibilità anche di un cuscinetto di sicurezza, ma certamente va fatto nella pace, nella stabilità, nel dialogo. C’è una difficoltà dell’Ue, ma anche una volontà diffusa di chiedere alla Turchia di fermarsi. Tutti sanno che le questioni non possono essere affrontate con l’uso della forza».

Il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ritiene che l’unica strada da seguire sia quella delle Nazioni Unite e dice di confidare nella linea comune che uscirà dall’incontro programmato il prossimo lunedì 14 ottobre del consiglio dei ministri degli Affari esteri europei.

La netta condanna dell’operazione bellica in corso arriva anche dall’opposizione. Secondo Forza Italia, ad esempio, «l’aver lasciato che la Turchia, Paese membro della Nato, aprisse un conflitto contro il popolo che è stato decisivo nella sconfitta dell’Isis è un atto di vigliaccheria che peserà per molto tempo sull’intero Occidente», paventando il ritorno in libertà di 10 mila terroristi richiusi finora nelle prigioni curde.

Tutti invocano il cessate il fuoco ma è evidente il dilemma sulla possibilità del tipo di interposizione possibile e resta il nodo di aver a che fare con la potenza militare turca che riveste un ruolo decisivo nell’Alleanza atlantica guidata dagli Usa.

In Italia esiste, inoltre, un forte legame di parte della società con l’esperimento di democrazia popolare e laica rivendicata dal popolo curdo. Sui social compaiono i volti delle donne guerrigliere che hanno fermato l’avanzata dell’Isis. Le loro espressioni sorridenti rimandano idealmente alle immagini della Resistenza antifascista e pongono seri interrogativi sulle forze che hanno finanziato la nebulosa delle formazioni del terrorismo integralista islamico. Il sostegno alla causa curda si è resa evidente con la partenza di volontari italiani andati a sostenere, anche con le armi, le formazioni militari che rivendicano l’autonomia del Kurdistan. Nell’estate scorsa, ad esempio, a Roma è stata dedicato uno slargo nel parco Nomentano a Lorenzo Orsetti, il giovane fiorentino morto nel marzo 2019 mentre combatteva l’Isis a fianco delle formazioni democratiche curde.

Ogni intervento nella martoriata regione medio orientale ha effetti incalcolabili per ogni attore possibile sulla scena internazionale ed è probabile che i Paesi occidentali restino in una posizione di stallo e di attesa delle scelte del presidente Trump.

Ma è loro possibile un esercizio di elementare sovranità nel rispetto della normativa nazionale e dei trattati vigenti a livello mondiale. È questa la richiesta avanzata formalmente al ministro Di Maio, dalle associazioni facenti parte di “Rete Italiana per il Disarmo” (Rid), di sospendere «con effetto immediato tutte le forniture di armamenti e sistemi militari verso il Governo di Ankara, come prevede la legge 185 del 1990 che impedisce di inviare armi a Paesi in stato di conflitto armato».

Dai dati pubblicamente accessibili, infatti, risulta che la Turchia «è da molti anni uno dei maggiori clienti dell’industria bellica italiana».

Come ricorda il coordinatore di Rete disarmo, Francesco Vignarca, «negli ultimi 4 anni l’Italia ha autorizzato forniture militari per 890 milioni di euro e consegnato materiale di armamento per 463 milioni di euro» precisando che «tra i materiali autorizzati: armi o sistemi d’arma di calibro superiore ai 19.7mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro, aeromobili e software».

Giorgio Beretta, noto analista sull’export di armi per la Rid, sollecita un intervento del Parlamento perché «l’appartenenza della Turchia alla Nato non può costituire un alibi per non affrontare la questione ed assumere le necessarie decisioni».

A parere del direttore della Rivista italiana di difesa, Pietro Batacchi, «siamo solo all’inizio dei giochi» complicati dalla pluralità degli interessi strategici coinvolti. Senza dimenticare che «i curdi dell’YPG (Unità di protezione popolare, ndr) rappresentano un osso molto duro. Stiamo parlando di non meno di 30/40 mila miliziani (a cui bisogna aggiungere circa 15 mila effettivi dell’Asaysh, la sicurezza interna), motivati, ben armati e addestrati dagli americani da cui hanno inoltre ricevuto durante la campagna contro ISIS armi, munizioni, equipaggiamenti e veicoli di vario tipo».

Il conflitto, dunque, che ha già mietuto le prime vittime civili, si annuncia lungo e violentissimo. Fermare l’invio di armi non risolve il problema, fanno notare i sostenitori abituali di un certo realismo politico, ma resta aperta la questione della nostra corresponsabilità nell’alimentare una guerra che appare inevitabile. Anche perché chi potrebbe intervenire per fermarla non lo ritiene conveniente. Una questione e una responsabilità che non può non interrogare la coscienza collettiva, prima ancora di quella dei governi e dei parlamentari.

 

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