La violenza delle milizie rivali

Cosa sta accadendo al conflitto che vede i ribelli bengalesi confrontarsi con le forze dell’ordine del governo birmano?

Ormai si parla di circa 430 mila profughi che finalmente sarebbero riusciti a varcare il confine col Bangladesh e a trovare rifugio nei campi profughi di quel Paese. Una soluzione discutibile, ma comunque una soluzione. Sì perché la crisi va avanti da troppo tempo ormai, e per troppo tempo il governo di Dhaka ha rifiutato (ed impedito anche con le armi) un libero accesso ai campi profughi al confine: campi profughi che sono sostenuti dalle Nazioni Unite.

A questo proposito, alcuni aspetti vengono sistemati tralasciati dalla gran parte dei media occidentali, vittime delle tante semplificazioni dei conflitti. Perché bisogna sapere che è in atto un vero e proprio conflitto armato che vede confrontarsi l’Arsa, Arakan Rohingya Salvation Army, e le truppe del governo del Myanmar. Nel mezzo le vittime innocenti, la gente, la povera gente. A complicare la situazione va ricordato che in Myanmar operano da tempo dei gruppi di nazionalisti ed estremisti buddhisti del Myanmar, delle vere fazioni fondamentaliste che fomentano la lotta, cercando di scacciare i rohingya dai loro villaggi. Quest’ultimo punto, come più volte scritto in precedenti articoli, andava avanti da decenni ma mai nessuno ne parlava nei mass media.

Questa bellissima e martoriata nazione, che ha conosciuto 70 anni di guerra civile, sta finalmente conoscendo in queste settimane l’attenzione dei mass media mondiali, per la gravità della situazione dei rohingya. Ma l’obiettività difetta, come spesso accade nelle guerre: generalmente si sposano le ragioni di una parte contro l’altra, anche se raramente le guerre vedono i buoni schierati contro i cattivi. Il caso del Myanmar non è diverso. Oggettivamente la spinta xenofoba e anti-musulmana dei buddhisti più estremisti è intollerabile, e va denunciata; ma va denunciata anche la malafede di chi vuole “vittimizzare” il conflitto senza capire che le colpe non stanno solo dalle parti del governo del Myanmar, ma anche del Bangladesh e di altri Paesi musulmani della regione. Ed a taluni fa comodo, perciò, che vi sia una guerra che distolga l’attenzione da altri conflitti, come in Siria, Iran, Iraq, Yemen.

Chi sa ad esempio che non tutti i villaggi rohingya sono stati bruciati dalle forze dell’ordine del Myanmar, ma anche da gruppi rivali di musulmani? La situazione è complessa, anche se ci si mette nell’orizzonte dell’ormai imminente viaggio del Papa in Myanmar e si tenta di costringere la Chiesa a pronunciare una parola “definitiva” sul conflitto a favore di una parte o dell’altra del conflitto, nella difesa dei più poveri.

Lo stesso deve esser detto per la premio Nobel della Pace 1991, Aung San Suu Kyi, rappresentante ufficiale del governo, che ha parlato di «un iceberg di disinformazione» sulla penosa questione, e di cui si è già scritto. Suu Kyi non si è recata a New York in questi giorni per la 72a Assemblea generale dell’Onu, proprio per la campagna di stampa contro di lei scatenata negli ultimi 2 mesi. Si è parlato sui giornali addirittura di toglierle il premio Nobel 1991: ma non si può dimenticare che se il Myanmar è oggi un Paese di cui possiamo scrivere e che possiamo visitare, lo dobbiamo a lei, che dal 1988, anno del suo rientro in Myanmar, difende tutte le minoranze etniche del Paese, compresa quella dei rohingya e lavora per l’unità nazionale con i 135 gruppi etnici legalmente riconosciuti.

Il conflitto sul terreno si sta complicando, per l’uscita a vita pubblica dell’Arsa e del suo leader, Atullah abu Ammar Jununi, un pachistano istruito e addestrato in Arabia Saudita. Afferma di essere autoctono, ma credibili fonti diplomatiche sostengono che egli non ha mai vissuto nello Stato del Rakhine, terra dove vivono i rohingya. Il suo ruolo è molto discusso: sta in effetti raccogliendo miliziani locali per mescolarli con degli stranieri reduci da altri punti caldi della terra, in un progetto jihadista mascherato da intervento umanitario. Ciò complica il compito di chi vorrebbe evitare a tutti i costi un conflitto armato e di chi sta cercando una soluzione umanitaria giusta e duratura per la popolazione rohingya, che sta vivendo un calvario indiscutibile e che va risolto.

 

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