Approvata l’acqua «privatizzata»

«Sarà un bene o un male?», si chiede perplessa la gente. Servirebbe una specifica Authority di controllo.
Fontanella Roma

«Gli acquedotti devono dare da bere non da mangiare». La graffiante battuta girava già prima del voto di giovedì scorso alla Camera, che ha dato il “sì” definitivo al decreto sulla liberalizzazione di alcuni servizi pubblici, acqua compresa.

«Sarà un bene o un male?», si chiede perplessa la gente in fila allo sportello postale. Dalle dichiarazioni dei politici non si riesce a capire granché. Il Pd ha fatto dichiarazioni indignate, l’Italia dei valori ha messo su una bagarre in aula. Ma queste non sono novità e non contribuiscono a chiarire il quadro. Il dubbio permane: bene o male? Ma se sul provvedimento il leghista Castelli ha chiesto deroghe per i «comuni più virtuosi» e alcune regioni pensano di ricorrere alla Corte costituzionale, qualche sospetto può prendere corpo. Se, poi, alla nuova legge si oppongono i sindacati confederali e le associazioni dei consumatori, allora c’è da iniziare a temere che la faccenda non sia un affare per i cittadini.

 

Proviamo a capire. Il decreto presentato dal ministro Ronchi era un atto dovuto. Lo si capisce dal titolo: “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea”. Il governo, in buona sostanza, ha dovuto predisporre norme per evitare infrazioni da parte dell’Unione europea sul tema della liberalizzazione dei servizi pubblici locali, che la nuova legge regola relativamente all’acqua, ai rifiuti e al trasporto pubblico locale.

 

Va detto subito che l’acqua è un bene pubblico e, con la nuova legge, resta un bene pubblico, ma non si può non rilevare – come osservato da più parti – che si dà il via ad una rivoluzione che favorirà l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici. Il ministro Ronchi ha tenuto a precisare che la normativa approvata «garantirà più concorrenza ed efficienza nei servizi che potrebbero portare a un abbassamento delle tariffe». Apriti cielo!

Le associazioni di tutela dei consumatori temono invece proprio l’effetto opposto: aumento delle tariffe e scarsi investimenti, perché i privati che prenderanno in gestione il servizio hanno come scopo quello di ricavare utili.

 

Se le tariffe sull’acqua sono rimaste contenute in Italia rispetto agli incrementi avvenuti negli altri Paesi europei, questo lo si deve alla gestione pubblica, che spesso non è esemplare. Il fatto che la rete idrica perda in media ben oltre il 30 per cento (con punte del 50) dell’acqua che trasporta la dice lunga sulla qualità della manutenzione e sulla quantità degli investimenti operati. Convivono infatti realtà pubbliche gestite egregiamente e altre in modo disastroso, così come la mano privata mostra efficienza in certi casi e logiche speculative in altri. L’esperienza francese, in cui grandi città come Parigi hanno deciso di ritornare al pubblico per i costi eccessivi e per la bassa qualità, va tenuta presente.

 

Cosa ci aspetta? «La normativa non garantisce i consumatori da comportamenti speculativi», avverte l’Adicosum, organismo vicino alla Cisl. La nuova legge prevede che i nuovi appalti siano assegnati con gare pubbliche aperte a tutti gli operatori con i requisiti necessari. Il compito di chiarire tutte le procedure spetta al cosiddetto regolamento attuativo, che fisserà i criteri che serviranno, da un lato, per tutelare il mercato e le aziende private e, dall’altro, per salvaguardare la natura stessa dei servizi pubblici essenziali. Per Ronchi, il regolamento sarà pronto entro la fine dell’anno.

 

Per gestire un’operazione del genere dovrebbe essere creata una specifica authority di controllo per l’acqua. Ma nella stessa maggioranza non sono tutti d’accordo nel dar vita ad un nuovo organismo. C’è infatti chi propende per la creazione di un’apposita sezione in seno all’authority per l’energia e il gas.

 

Le associazioni dei consumatori ritengono invece fondamentale una specifica authority per la rete idrica, con concreti poteri di sanzione sul mancato rispetto dei parametri di qualità e di investimento, oltreché sugli incrementi delle tariffe.

E qui sta il problema tutto italiano. Le Authority servono se sono forti, se cioè stabiliscono prestazioni, investimenti, tariffe massime; se effettuano controlli rigorosi, disponendo del pieno potere di infliggere sanzioni adeguate e regolarmente applicate. Sinora gli esempi non sono incoraggianti. Anzi, per restare in tema, fanno acqua.

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