Ancora cento passi con Peppino Impastato

Il valore dell'opera filmica di Marco Tullio Giordana per capire come questa forma di arte sia in grado di aiutarci a costruire la memoria e la coscienza civile
ANGELO TURETTA-ANSA-JI

Alcuni giorni fa, precisamente, il 9 maggio scorso, sono passati quarant’anni dalla morte di Peppino Impastato: il ragazzo, perché questo era Impastato quando è scomparso – un ragazzo di trent’anni – ucciso in modo barbaro dalla mafia. Uno dei tanti, in fondo, una delle tante di storie calpestate di passione per la giustizia, ma anche passione civile – e quindi umana – atrocemente annullata; un esempio di altissima compatibilità con la vita, il suo, di amore per la propria terra e per quelli che la abitano, energia totalmente disintegrata, smorzata, condannata. L’elenco è tristemente lungo, ma la vicenda di Peppino Impastato è una di quelle più conosciute, più note, più nel cuore della gente: il suo nome suona familiare a tanti, quasi a tutti, e la sua immagine sentimentale è viva più di tante altre.

Peppino Impastato è uno dei meno morti tra i tanti morti di mafia, e non perché la sua storia sia più dolorosa di altre, o perché lui sia stato più eroe di altri, ma solo perché – può sembrare banale ma forse non lo è – tra lui e la memoria c’è di mezzo il cinema, il cinema  migliore: quello utilissimo e piuttosto raro che sa stare in equilibrio tra impegno civile – verità, storia, cronaca, storia – e capacità di emozionare, di toccare a fondo l’emotività.

Il film dedicato a Peppino Impastato, I cento passi di Marco Tullio Giordana, del 2000, è un film popolare ed è uno tra i più efficaci film sulla mafia mai realizzati: ha una capacità notevolissima di scaldare il personaggio e il cuore di chi si imbatte nella sua storia, e nel suo clima riesce a raccontare storia e mentalità mafiose, consentendo un’empatia profonda con un giovane che somiglia a quello che vorremmo essere stati, ma anche a ciò che in parte siamo stati, con la sua semplicità, quella di un giovane normale e insieme straordinario, con i suoi amici, la musica, il cinema stesso, il tempo libero, l’estate, la speranza e la paura sul volto, inevitabilmente insieme, e anche la solitudine, l’introversione e il desiderio di combatterla, di entrare in relazione.

La storia di Peppino Impastato, grazie anche alla felicissima interpretazione di Luigi Lo cascio, ricorda quanto il cinema – al pari di un buon libro o di una canzone straordinaria, possa essere d’aiuto nel costruire memoria e coscienza civile. La cultura, certamente – forse soprattutto quella popolare – può salvare il mondo, in quanto produttrice di bellezza può regalarci il dono dell’empatia, che è la capacità di entrare nei panni dell’altro, di scoprire e poi provare i suoi stati d’animo, i suoi sentimenti, le sue ragioni, i suoi conflitti interiori. Solo così possiamo fare nostra la sua lezione, capirlo davvero, portarlo dentro come un costante insegnamento. Crediamo tutti di aver conosciuto Peppino Impastato, crediamo di sapere tanto di lui grazie alla magia del cinema. Sappiamo perfettamente cosa gli è accaduto ma anche come la pensava, conosciamo la sua ironia geniale, le sue riflessioni, la sua battaglia, il rapporto con suo padre, con sua madre, con suo fratello, quello con una mafia distante da casa sua cento passi, e forse nessuno, perché era dentro ogni centimetro quadrato del suo paese, Cinisi.

Nella testa della gente. Esistono, purtroppo e per fortuna, molti film sulla mafia, non tutti utili allo stesso modo, non tutti all’altezza del loro compito: alcuni poco attenti alla distruzione dell’immagine stessa della mafia, incapaci, o forse non particolarmente intenzionati ad essere di fatto loro nemici. Ce ne sono molti preziosi, tuttavia, anche relativamente recenti: Alla luce del sole di Roberto Faenza, del 2005, sul sacerdote Don Pino Puglisi ucciso a Palermo il 15 settembre 1993, oppure La mafia uccide solo d’estate, del 2013, di Pier Francesco Diliberto, in arte Pif, che con intelligente e comunicativa leggerezza, con geniale ironia, racconta, eccome, molti anni di mafia siciliana, con un finale commovente in cui realtà e finzione si mescolano abilmente.

Anche I cento passi commuove, dopo averci riportato magicamente dentro gli anni settanta, con le loro idee e la loro straordinaria musica, elemento fondamentale del film insieme alle tante parole chiare, precise, pesanti e leggere insieme di Peppino Impastato. La sequenza finale in cui tanta meglio, comune, illuminata gioventù scende per strada dopo l’uccisione di Peppino, per dire che la battaglia non è finita, che la bellezza non è morta, che il sacrificio del ragazzo ha portato grandi frutti, fa esplodere l’emozione nello spettatore, grazie anche alle note stupende, anche loro magiche, di A whiter shade of pale dei Procol Harum.

È la rivincita, oltreché del protagonista, pure di chi, davanti a un ottimo film ha condiviso la sua coraggiosissima presa di posizione e ha sofferto per quanto gli hanno fatto, così come ringrazia il cinema di averglielo fatto conoscere così bene, di averglielo fatto amare, di aver imparato qualcosa attraverso la sua sofferenza.

 

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