Ambiguità politica sulle armi per lo Yemen

La mozione approvata alla Camera rischia di restare inutile, mentre il conflitto continua a fare le sue vittime. Iniziativa davanti Montecitorio
Foto Giuliano Del Gatto

Sì sì, no no. Il linguaggio della politica dovrebbe essere lo stesso delle persone normali. E, invece, dopo il recente voto della mozione alla Camera a favore dello stop all’invio dall’Italia di bombe e missili all’Arabia Saudita ed Emirati Arabi, sembrava che il governo Conte si decidesse a muoversi di conseguenza. E, invece, tutto tace. Anzi, l’assessore al lavoro della giunta di destra che governa la Regione Sardegna,  ha convocato le parti sociali coinvolte nella produzione bellica della Rwm Italia di Domusnovas, per assicurare l’interesse a non diminuire affatto il volume dell’attività.

D’altra parte la mozione parlamentare che porta i nomi di due esponenti della maggioranza governativa (Cabras per il M5S e Formentini per la Lega) non prevede alcuna direttiva, per l’esecutivo, a impegnare le risorse necessarie alla riconversione industriale di quel territorio afflitto da una grave crisi occupazionale. Da fonti ben informate sembra che la multinazionale tedesca che controlla il sito italiano avrebbe in portafoglio altre commesse meno problematiche, come la fornitura di armi pesanti alla Francia, che rientrano nel perimetro della Alleanza atlantica. Teoricamente, quindi, neanche servirebbe elaborare una politica industriale alternativa che nessuno in Italia riesce anche solo ad immaginare. Basterebbe smettere di inviare armi a Paesi in guerra come stabilito dalla legge 185 approvata il 9 luglio del 1990, l’anno dopo il crollo del Muro di Berlino che aveva fatto sperare ingenuamente in un futuro di pace per l’umanità.

Foto Del Gatto
Foto Giuliano Del Gatto

Proprio nella ricorrenza del 9 luglio, le realtà italiane coalizzate sulla questione Yemen, hanno promosso una manifestazione simbolica davanti palazzo Montecitorio, chiedendo lo stop all’invio di bombe utilizzate in Yemen. Nella conferenza stampa, che è seguita, Leonardo Frisari, di Medici senza frontiere, ha raccontato le quotidiane storie di orrore che ha incontrato in Yemen come chirurgo chiamato ad operare in strutture ospedaliere prese di mira ben «cinque volte da bombardamenti aerei della Coalizione guidata dall’Arabia saudita».

Le squadre di Msf, dall’inizio dei combattimenti, marzo 2015, fino a dicembre 2018, hanno potuto operare «81.102 interventi chirurgici, fornito cure a 119.113 feriti di guerra, fatto nascere 68.702 bambini e curato più di 116.687 casi sospetti di colera».

Di fronte ad una crisi umanitaria denunciata più volte dai rapporti degli esperti Onu, sembrava arrivato il momento della presa di coscienza da parte delle istituzioni italiane. Una novità insperata dopo che nel 2017 la stessa Camera aveva finito per approvare la mozione Quartapelle (Pd) che impegnava l’Italia negli aiuti alla popolazione civile senza far alcun riferimento all’interruzione di ogni fornitura militare alle parti in guerra.

Ma ora sembra, a tutti gli effetti, che anche la nuova mozione, formalmente più esplicita, assomigli ad una “grida manzoniana” incapace di incidere sulla realtà delle cose.  La pensa così il professore statunitense Patrick Boylan che vede l’azione concertata dalle forze di maggioranza come una manovra diversiva, tesa ad impedire l’approvazione degli altri atti di indirizzo presentati dai deputati di Leu (Fassina e altri). Anche il Pd, sempre con la Quartapelle ma ora in minoranza, ha presentato una mozione di stop all’invio di armi in Arabia Saudita.

Chi ragiona in maniera lineare, come il comitato per la riconversione Rwm, ha salutato come un atto importante il segnale giunto da uno dei rami del Parlamento e ha chiesto di passare dalla teoria all’azione concreta. Con una lettera aperta rivolta alla giunta regionale ha fatto presente il problema di una cultura della nostra «sottomissione a chiunque offra qualunque tipo di lavoro, come se non fossimo un popolo fiero e capace di alternative, se opportunamente sostenuto da una politica efficace e da leggi regionali adeguate, anche in tema di riconversione».

Ma è chiaro che scaricare solo su un territorio le contraddizioni di un intero Paese serve solo a localizzare e relativizzare la questione nazionale della produzione e commercio di armi.

Le regole sono quelle poste con dignità, e in linea con la Costituzione, dalla legge 185 del 1990, che continua ad essere aggirata o del tutto ignorata nella parte che prevede il finanziamento della riconversione produttiva. Fino a quando?

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