Alla conquista del vello d’oro

Mito e avventura in uno dei capolavori della letteratura ellenistica: le “Argonautiche” di Apollonio Rodio, ora in una nuova edizione.

Oggi la Georgia, con capitale Tbilisi, è uno Stato indipendente del Caucaso eurasiatico, che confina a Nord e a Nord-Est con la Russia, a Sud con la Turchia e l’Armenia, a Sud-Est con l’Azerbaigian e a Ovest col Mar Nero. Ma nel I millennio a. C. la parte occidentale del suo territorio affacciato su questo vasto bacino interno (il Ponto Eusino dei greci) era nota dalle fonti antiche col nome di Colchide: una terra misteriosa, selvaggia, al limite estremo del mondo conosciuto. Sede delle mitiche Amazzoni e luogo di punizione di Prometeo, incatenato dagli dei in cima ad una montagna per avere rivelato agli umani il segreto del fuoco, essa era considerata con diffidenza dai civili greci, in quanto abitata da genti barbare e poco affidabili, spesso dedite alla magia: come la figlia del re Eete, Medea, che invaghitasi di Giasone per causa sua si macchiò di eccessi delittuosi e nefandi.

La Colchide è legata anche ad uno dei miti più famosi dell’antichità, quello degli Argonauti partiti tra mille peripezie alla ricerca del vello d’oro; mito che ha ispirato una schiera numerosa di autori. A cantare l’impresa o parti di essa e i personaggi in qualche modo coinvolti si cimentarono poeti come Pindaro, Simonide e Callimaco, tragediografi come Euripide, Eschilo e Sofocle, per limitarci ai maggiori; ma delle loro opere, poche ci sono pervenute integralmente. Non così il poema epico di uno dei massimi poeti alessandrini, Apollonio Rodio: poco meno di 5850 esametri divisi in quattro libri, giunti a noi completi. La lingua? Greca, fortemente arcaizzante, modellata principalmente su Omero.

Dell’autore delle Argonautiche sappiamo ben poco: nato probabilmente nell’Egitto tolemaico, ad Alessandria o a Naucrati, sembra sia stato allievo di Callimaco, il massimo poeta ellenistico. Bibliotecario della celebre biblioteca, si tramanda che abbia soggiornato per un periodo a Rodi (da cui l’attributo “rodio”) e sia vissuto all’incirca tra il 290 e il 230 a. C. Ispirata al grande modello omerico, la sua è un’ opera letteraria non solo piacevole, ma anche stimolante, una volta che il lettore moderno abbia “digerito” l’elemento più erudito: nomi propri ed epiteti, citazioni geografiche, allusioni letterarie e quelle a varianti del mito stesso, che possono rendere talvolta difficile la lettura del testo.

Felice la scelta, fatta da Apollonio, di limitarsi al filone principale, cioè l’avventuroso viaggio di Giasone e degli altri eroi dalla Grecia alla Colchide (e già c’è quanto basta!), con solo qualche accenno agli antefatti e a quelli successivi. Manca del tutto, ad esempio, ogni riferimento esplicito ai famosi episodi della vendetta di Medea a Corinto con l’uccisione dei figli avuti da Giasone, lo sposo fedifrago in procinto di convolare a nuove nozze.

Nel celebrare la conquista del vello d’oro, custodito da un drago mostruoso nel boschetto sacro ad Ares, il dio della guerra, l’autore alessandrino si ispirò a Omero, di cui era studioso ammiratore, ma al tempo stesso tentò un originale rinnovamento dell’epica tradizionale, proponendo un modello di eroe diverso da quello fissato nell’Iliade e nell’Odissea. Per molti aspetti, infatti, il Giasone di Apollonio risulta un anti-eroe che offrirà qualche spunto anche a Virgilio per il protagonista dell’Eneide. Intanto la spedizione che ha per meta la patria di Medea è voluta non da lui, ma da Pelia, il crudelissimo re di Iolco che era anche suo zio, ed egli quasi vi si rassegna, nonostante gli oracoli favorevoli. Spesso poi appare dubbioso, e ogni qualvolta è possibile evita di ricorrere alla forza, preferendo la persuasione e i discorsi concilianti. Per lo più passivo, il duce degli argonauti subisce le situazioni (all’opposto di Achille!), ma quando è necessario non esita a combattere. In compenso gli arride la fortuna, tant’è che a differenza di Ulisse riesce a riportare vivi a casa quasi tutti i compagni, il cui ruolo peraltro è molto più importante che non in Omero (nell’Odissea essi sono più che altro “comparse”, mentre tutto il rilievo è per le prodezze del re d’Itaca).

I miti hanno un loro spazio. Di qui la minuziosa geografia apolloniana riguardante gli spostamenti della nave Argo dalla Tessaglia, attraverso il Bosforo e lungo la costa meridionale del Mar Nero, all’arrivo in Colchide. Tranne alcuni fantasiosi collegamenti nel viaggio di ritorno, a cominciare dal Mar Tirreno fino a Pagase, il porto di partenza, l’itinerario è di nuovo collocabile su una moderna carta geografica senza difficoltà. Gli eroi stessi che partecipano alla spedizione, in quanto provenienti da varie regioni della Grecia, contribuiscono ad allargare lo spazio geografico del poema. E proprio ad essi si rivolge Apollonio concludendo il quarto libro del suo capolavoro: «Siate propizi, eroi, discendenza di dèi beati, e questi canti/ di anno in anno siano più dolci da cantare/ per gli uomini. Ormai sono giunto al termine glorioso/ delle vostre fatiche, poiché non vi fu più alcuna prova per voi/ ritornando a casa da Egina,/ né si levò il turbine dei venti, ma tranquilli/ costeggiaste la terra cecropia e Aulide,/ al di qua dell’Eubea, nonché le città opunzie dei Locresi,/ e con gioia sbarcaste sui lidi di Pagase».

La più recente edizione delle Argonautiche, con testo greco a fronte, è quella apparsa per i tipi di Rusconi nella prestigiosa collana “Classici greci e latini” diretta da Anna Giordani Rampioni. In nuova traduzione, con saggio introduttivo e corredo di note a cura di Sonja Caterina Calascia, l’opera si configura come un testo di riferimento indispensabile per avvicinare e apprezzare questo poema giuntoci miracolosamente integro, grazie alla fortuna che dall’antichità fin quasi ai giorni nostri ha accompagnato il mito argonautico e alle sue innumerevoli versioni offerte dalle arti figurative.

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