Addestramento per il volo

Jozko Petrek
Tra i rami di un vecchio noce che domina il giardino della casa, gracchia insistentemente una gazza. Mi dà il tempo di prendere la macchina fotografica e di seguirla, ma per la mia Canon sono troppo veloci i suoi salti da un ramo all’altro. Chiude il suo spettacolo con un deciso volo verso un altro giardino. Mi siedo su una sedia di plastica bianca ancora imperlata di brina. È fresca la dolorosa impronta della morte di Jožko, che ho avuto la sorte di assistere nei suoi ultimi settanta giorni. Una mattina eravamo proprio qui, su queste sedie, e uno schiamazzo assordante copriva le parole che ci dicevamo. Delle gazze saltavano da un ramo all’altro del noce che ci raccoglieva come un’antica cattedrale. Una, la gazza madre, stava insegnando a volare a due piccole. Jožko mi dice: Non ti sembra che qualcuno stia facendo così con me? Mi sta insegnando a staccarmi dai punti fermi e a lanciarmi nel vuoto. Osserva queste piccole gazze. Hanno paura di buttarsi. Tremano. Oppure gridano di gioia, frenesia dell’avventura. La madre le magnetizza. Guarda cosa non fa per convincerle. Ecco un bel salto, ancora uno più lungo. La madre ha previsto la lunghezza del volo, ha misurato i pericoli. Che maestria! Le convince a riprovare. Ce l’hanno fatta. Volano!. Ascolto l’amico con attenzione. So che il suo tempo è segnato. Quando sei anni fa il cancro è spuntato nel mio corpo ero così forte che mi sembrava un fatto assolutamente estraneo alla mia vita, anche perché non mi dava particolari disturbi. Succede poi che il tarlo entra anche nei tuoi pensieri e ti comincia a mancare la terra sotto i piedi. Giorno dopo giorno cambiano i tuoi punti di riferimento. Un elemento sconosciuto diventa protagonista nella tua vita e si comporta da despota. Il tempo, che consideravi tuo possesso, ora si rivela nel suo ghigno nemico e imbroglione. Quello che hai fatto ha già perso consistenza, si rattrappisce come un palloncino bucato. Non sai cosa può succedere. Cominci a dipendere da una nuova speranza nella scienza, poi cadi dal gradino di una piccola delusione e sotto di te si apre un burrone minaccioso. Ricordi i giorni in cui correvi da un appuntamento all’altro, programmavi la settimana, il mese, l’anno. Ora il battito del cuore segna l’avanzare inesorabile di un male che ha saputo insidiare un corpo allenato come il mio. Ho lottato, speravo di farcela. Il cancro ha vinto. Ho ritrovato la pace soltanto quella volta che ho raccolto tutte le mie forze, i miei brandelli di speranza e liberamente ho offerto a Dio tutto, come consiglia Chiara Lubich, prima che la morte me lo verrà a rubare. Ho cominciato a fare spazio alla malattia ed è iniziata una convivenza più che con la malattia, con il mistero. Una lettura alla messa diceva: Se una madre può abbandonare il proprio figlio, io non ti abbandonerò mai. Eppure sono ar- rivato a provare l’abbandono di Dio. È stato durante la Quaresima. Avevo fatto un digiuno totale sia come cura sia come sacrificio. Quarantadue giorni senza prendere altro che bevande. Ero sostenuto dalla speranza di guarire. Poi, quando mi sono reso conto che la malattia era andata avanti, mi è sembrato di coincidere con un vuoto crudele. La fede nell’amore di Dio è scomparsa rapidamente dal mio orizzonte. Un giorno parlando per telefono con mia sorella Jana, le confidavo questo mio stato d’animo. Proprio io che avevo lasciato tutto per Dio, che avevo rinunciato ad una famiglia, al calcio, ora ero un fallito. Quel Dio che mi aveva sostenuto fino a rendermi capace di azioni eroiche, si era dileguato. Non era assenza improvvisa, era assenza che investiva anche il passato. Jana con tanta delicatezza, con lo stesso tono di sempre, mi ha fatto notare che Dio mi manifestava il suo amore attraverso prossimi come Ana e Tomi, che per sostenermi hanno fatto anche loro un giorno di digiuno a settimana, come tanti altri che si curano di me. Quelle parole sono state un balsamo. Erano vere. Ogni volta che viene a trovarmi un parente, un amico, mi si ripresenta la mia vita. Ripenso alla mia passione per il calcio. Giocavo nel circolo sportivo locale della mia città, Spišska Novà Ves, nella Slovacchia orientale. Essendo bravo, sono stato scelto per fare il militare nel Dukla, club sportivo-militare in Moravia, a Krom íž. Giocavo in serie C. Durante quel periodo mi è stato offerto di andare a Pardubice, nella Boemia orientale dove ho cominciato a studiare chimica tecnologica e a giocare nella squadra locale che stava nella serie B nazionale. In quella cittadina, un seminarista, oggi sacerdote, che aveva notato la mia frequenza in chiesa, mi ha introdotto in un gruppo che mi ha permesso di vivere assieme ad altri la mia fede. Quel gruppo aveva qualcosa di insolito, era animato da una radicalità liberante e gioiosa. Sono venuto a sapere che, superando la cortina di ferro che isolava i nostri Paesi dall’Europa occidentale, era arrivato fino all’allora Cecoslovacchia uno stile nuovo di mettere in pratica il Vangelo: la spiritualità del Movimento dei focolari. Nell’atmosfera di quella comunità ho sentito nascere il desiderio di una donazione totale come quella di chi diventa sacerdote. Ciò comportava rinunciare ai miei studi e alla promettente carriera sportiva. Ero talmente preso dall’idea di mettere la mia vita nelle mani di Dio che tutti i sacrifici che ciò richiedeva rinforzavano la mia decisione. Ho fatto la richiesta ma in seminario non sono stato accettato. Ascolto Jožko, mentre le gazze tornano a gracchiare. Forse hanno sul noce il loro nido. Le gazze hanno un modo di costruire i loro nidi nella stretta collaborazione della coppia. Una tiene il ramoscello in modo tale che l’altra lo possa intrecciare con gli altri ramoscelli già sistemati e le loro estremità rimaste fuori sono degli appigli per la stabilità tra i rami. Jožko mi interpella: Non ti pare che facciamo così anche noi? Uno è malato, l’altro lo aiuta… e tutto serve per costruire il focolare, l’ambiente perché Gesù sia tra noi. In fondo è questa l’esperienza esistenziale che Maria voleva che io facessi. Lei che è madre di Gesù voleva portarmi a scoprire che il nostro Dio è vivo, è vicino, tangibile e ad annunciarlo ad altri. È l’amore tra gli uomini. È il Risorto. E io, come lei, devo fare in modo che dappertutto sia vivo l’amore. Io sono debole, mi sento un nulla, ma sono forte assieme agli altri. Da solo sarei malato, con gli altri sono sano. Pensavo che la malattia fosse una punizione. Sarebbe poca cosa come punizione. Il fatto è che Dio voleva che io dessi il mio contributo al movimento soprattutto in questo suo momento, dopo la morte di Chiara. E dopo un breve silenzio: I miei genitori mi hanno inculcato un tale amore per Maria che penso sia stata sempre lei a guidarmi e ora mi sta insegnando a volare. Ho seguito i segnali e mi sono trovato a vivere assieme ai primi focolarini della Slovacchia. In questa stessa casa, che allora era mal ridotta, venivo a lavorare ed era una tale gioia contribuire concretamente a edificare il focolare. L’idea che Gesù avrebbe ridato alla nostra martoriata nazione dignità e libertà era così forte che non misuravo nessun sacrificio. Anche quando mi sono trasferito a Mosca, il faro che seguivo era l’idea di amare sempre, amare tutti, portare amore dovunque. L’altro giorno mi ha telefonato Nikita, piangeva per telefono. Mi invitava ad andare a curarmi a Mosca. I russi hanno il cuore così. Quando l’ho conosciuto, assieme a tanti altri, era un ragazzino, ora è un affermato ingegnere. Come Nikita molti farebbero chissà cosa per me. Ha ragione Jana, Dio mi fa arrivare il suo amore delicato, caldo attraverso i fratelli. La gazza ora si è spinta verso la terrazza della mansarda dove una volta dormiva Jožko. Gli dico che la mattina è bello essere svegliati dal sole. E l’amico ricorda che per lui era così, anzi aveva preso l’abitudine di dire come preghiera: Signore, riscaldami con la tua luce, annulla in me ogni angolo oscuro, brucia tutto ciò che mi ostacola nel cammino verso di te e fammi diventare amore, per poterti così raggiungere e vederti. Jožko entra in un silenzio profondo, poi guardandomi sereno negli occhi: Ora che la malattia sta consumando il corpo, mi sembra che si stia realizzando questa invocazione. La malattia mi fa scendere in profondità, mi porta a Dio. Mi è sempre presente ciò che mi ha detto una volta un amico: Quando in mare c’è tempesta i pesci scendono in profondità. Vorrei essere fedele fino alla fine. Spezzettate delle lacrime, mi arrivano sommesse queste parole: Non mi trattenete. Lasciatemi tornare da Gesù. Lasciatemi andare. Credo che il tempo sia compiuto. L’altra notte ho fatto un sogno strano, forse per le medicine che sto prendendo. Mi sembrava di essere in mezzo ad un caos senza confini. Ad un certo punto da questa indomabile confusione si alza una figura di uomo. Distinto, sicuro, vestito di nero, elegante. Lui mi guarda con un sorriso che mi fa paura e dice: Ho vinto io!. Istintivamente ho invocato Maria, come mi aveva insegnato padre Karel Pilik, e quella figura si è disciolta. Maria mi ha fatto vincere tutte le battaglie. È lei che mi ha condotto nella sua opera. E ora mi sta addestrando a volare…. Tanino Minuta

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