Accordo tra i 28 sulle richieste britanniche

Il cosiddetto Brexit deal è stato ottenuto alle prime ore del 20 febbraio alla fine di un lunghissimo Consiglio europeo. Ora l’Ue è in attesa dei risultati del referendum del 23 giugno nel quale gli inglesi decideranno se rimanere nell’Unione Europea
Ue summit

E così Cameron ce l’ha fatta. Il premier inglese ha portato a casa un accordo che gli permetterà di far campagna per il referendum, ormai fissato per il 23 giugno, in cui i cittadini britannici decideranno se il regno d’oltremanica resterà o meno membro dell’Ue.

 

Il momento era cruciale e David Cameron vi ha messo tutto il proprio peso politico e la sua credibilità. Basti pensare che dopo il Consiglio europeo-maratona del 18 e 19 febbraio, il gabinetto dei ministri britannici si è riunito un sabato (il 20), cosa che non accadeva dai tempi delle guerra della Falkland-Malvinas.

 

È stato un vertice europeo faticoso, lungo, e come spesso accade l’accordo è arrivato, forse per sfinimento, nel cuore di una lunga notte di negoziati. Più volte interrotto, con colazioni che venivano rimandate a pranzi, che poi diventavano cene, al punto che a un certo momento la cancelliera Merkel è andata a calmare i brontolii del suo stomaco al chiosco delle frites di Chez Antoine, prelibate.

 

Ci si possono fare tante domande sulla lucidità di questi accordi che arrivano alla fine di interminabili ore di dibattiti, di giochi a rimpiattino diplomatico e politico, sul perché gli incontri preparatori, numerosi ed anche ad alto livello, come quelli tra David Cameron, Donald Tusk e Jean-Claude Jucker, non abbiano permesso di preparare un po’ meglio il terreno.

 

La risposta è forse, semplicemente, che a 28 è diventato assai difficile decidere, e farlo bene e presto. Si sono superati i limiti della famiglia numerosa, si è diventati un qualcosa di più blando, in cui è estremamente arduo comporre i vari interessi nazionali e decidere insieme avendo come riferimento il bene comune di tutti, l’interesse dell’Unione e non (solo) dei singoli.

 

Quello che è certo è che, dopo il 23 giugno, l’Ue non sarà più la stessa: se vincerà il no, il Regno unito sarà esposto a un serio rischio di isolamento, affine com’è agli Usa per cultura e carattere e vicino geograficamente all’Ue, senza però essere ne l’uno né l’altra; e L’Ue si troverà più piccola e fragile, con meno peso sulla scena mondiale in cui deve fare i conti con giganti.

 

Se, come si prevede e si spera, vincerà il sì (anche se una parte degli stessi ministri del gabinetto che si è riunito sabato faranno campagna per il no, mentre Cameron, da parte sua, forte dell’accordo con i 27 partner, farà campagna per il sì), l’Ue sarà diversa: non tanto l’Europa a due velocità di cui tanti parlano (e che dà l’idea di andare, pur a velocità diverse, nella stessa direzione), ma varie Europe con ambizioni diverse.

 

Da un lato, l’Ue dell’euro e di Schengen, avviata – anche per necessità – ad un’“unione sempre più stretta”, proprio quella che Londra rifiuta e vorrebbe far cancellare dal preambolo dei trattati. Un’Unione più stretta con controlli comuni alle frontiere esterne per salvare la libertà di circolazione alle frontiere interne (le migrazioni erano l’altro grande tema sul tavolo del summit), con il completamento dell’Unione bancaria e, in futuro, di altri aspetti – anche in materia fiscale e sociale – di un’unione economica necessaria per non far esplodere l’unione monetaria.

 

Dall’altro, stati satelliti di questo gruppo più coeso, anche importanti come il Regno Unito – e a questo punto perché non la Turchia ? – che intendono beneficiare dei vantaggi del grande mercato interno (che andrà comunque completato in settori, come l’energia, in cui la cooperazione tra gli stati è ancora insufficiente), rispettare i valori comuni ma che non sono disposti ad andare più in là.

 

Chiarire le ambizioni di ognuno, ciò su cui si è disposti ad impegnarsi insieme, potrà essere benefico. L’Ue ha urgente bisogno di scelte precise. Potrebbe essere un bene, ed avere un effetto positivo sull’Ue nel suo insieme, se a fare queste scelte, difficili ma necessarie, saranno meno di 28 stati membri, ma con convinzione ed un’ambizione condivisa.

 

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Il contenuto dell’accordo

 

David Cameron, il primo ministro britannico, aveva promesso di rinegoziare le condizioni di adesione del Regno Unito all’Ue e in seguito di sottoporre la stessa adesione all’Ue a un referendum.

 

Il summit del 18 e 19 febbraio ha sancito un accordo su tali condizioni. Ecco i punti principali, che entreranno in vigore in caso di vittoria del sì al referendum del 23 giugno.

 

Il cosiddetto “freno di emergenza”.Per limitare l’immigrazione europea verso il Regno unito, Cameron aveva chiesto la possibilità di sopprimere per i primi 13 anni i benefici concessi ai lavoratori UE dal sistema previdenziale britannico (sussidio di disoccupazione ecc.) Alla fine ha ottenuto 7 anni, soprattutto per l’opposizione dei paesi dell’Europa centrale e orientale.

 

Sull’euro, Cameron voleva un riconoscimento esplicito che passi ulteriori verso l’integrazione degli stati dell’eurozona non svantaggino chi ne è fuori, e che gli stati non euro non parteciperanno al salvataggio di paesi in difficoltà dell’eurozona. Sul secondo punto, il summit ha confermato che il Regno unito, come gli altri stati che non fanno parte dell’euro o dell’unione bancaria, non parteciperà agli aiuti finanziari ai paesi dell’eurozona in difficoltà economica. Sul primo punto le conclusioni del Consiglio europeo sono alquanto vaghe: “Le misure che hanno come scopo l’ulteriore approfondimento dell'Unione economica e monetaria avranno carattere facoltativo per gli Stati membri la cui moneta non è l’euro … Il rispetto reciproco e la leale cooperazione tra gli Stati membri che partecipano o non partecipano al funzionamento della zona euro sarà garantito”. Occorrerà vedere come saranno messe in pratica, e nel frattempo ognuno può cantare vittoria.

 

L’industria finanziaria della Cityrimane sottoposta alle regole comuni europee per le banche e gli istituti di credito. Tuttavia, la vigilanza degli istituti e mercati finanziari dei paesi che non partecipano all’euro sarà di competenza degli stati, e non delle nuove autorità comuni a livello Ue.

 

Il Regno Unito, “alla luce della sua particolare situazione”, non è vincolato a prendere parte a un’ulteriore integrazione politica nell’Unione europea. Le parole “unione sempre più stretta tra i popoli europei” rimangono, ma Cameron ottiene, essenzialmente, quanto voleva.

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