«Abbiamo estratto dieci corpi, ma solo una persona era ancora viva»

Cosa dà ai soccorritori la forza per scavare per ore in condizioni impossibili, anche solo con le mani, alla ricerca dei superstiti? Intervista ad Umberto Paciarelli, grafico di Città Nuova e tecnico del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico
Squadre di soccorritori in azione ad Amatrice colpita dal terremoto

Il caschetto verde di protezione in testa, la divisa del CNSAS (il Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico), lo zaino pesante e impolverato sulle spalle, zuppo di sudore, con un pacchetto di salatini in mano. Con il collega Aurelio Molè lo abbiamo incontrato così, Umberto Paciarelli, il grafico di Città Nuova, mentre si faceva strada nell’aria impolverata di Corso Umberto I, per andare a registrarsi al centro operativo nell’elenco dei volontari accorsi ad Amatrice, per poi continuare a prestare soccorso dopo il terribile sisma di martedì notte.

 

Tutti i soccorritori accorsi tra Rieti, Perugia e Ascoli Piceno si stanno distinguendo per le energie profuse, il coraggio dimostrato, il lavoro ininterrotto, ma per noi di Città Nuova Umberto occupa un posto speciale, in questo esercito di eroi della porta accanto: persone normali pronte a trasformarsi in salvatori di sconosciuti in difficoltà.

 

Già verso le 5 di mercoledì, nel gruppo WhatsApp della redazione, ci annunciava di essere in partenza per i luoghi del sisma, con il suo gruppo operativo del soccorso alpino di Roma e provincia. Arrivato ad Amatrice, su richiesta della Provincia di Rieti, dopo un primo sguardo alle macerie che sostituivano i bei palazzi di questo antico borgo, Umberto ha scritto al direttore Michele Zanzucchi: «È come a L’Aquila», cioè un disastro. È una strage.

 

Tornato al lavoro dopo una giornata di scavo a mani nude e con attrezzi leggeri, per non arrecare danni a chi si trovava sotto le macerie, un po’ si schermisce alla proposta di un’intervista, ma poi cede alle insistenze e ci spiega come è possibile scavare per ore sperando di trovare una persona ancora viva, ma estraendo, il più delle volte, solo cadaveri, tenendo i nervi saldi. Ad Amatrice, i corpi che la sua squadra ha recuperato sono stati dieci. Solo una persona era ancora viva.

 

Umberto, cosa spinge a diventare un soccorritore?
«È una cosa che si sente dentro. Io sono sempre stato appassionato di montagna. Da ragazzo andavo ad arrampicarmi e ho fatto anche corsi specifici. Poi un amico mi chiese se volevo entrare nel soccorso alpino: per farne parte devi essere già esperto di montagna e superare un esame, con prove di arrampicata sulla roccia e sul ghiaccio e sull’uso di corde e piccozze. Vista la nostra preparazione tecnica, quando ci sono eventi catastrofici e si mobilita la macchina dei soccorsi a noi affidano i compiti più tecnici».

 

Cosa avete trovato al vostro arrivo ad Amatrice?
«La prima squadra del Cnsas di Rieti è arrivata sul posto alle 5.30. Noi invece siamo arrivati verso le 8.30 del mattino. Quando abbiamo visto il corso, gli edifici venuti giù e la tipologia di muri, fatti di sassi e calce, con le persone in strada che venivano medicate, abbiamo capito che si era trattato di un terremoto devastante».

 

Come si fa a reggere il peso di una tale tragedia?
«Io ho prestato soccorso a Colfiorito e a L’Aquila. Per riuscire a tirare fuori i morti devi essere preparato, concentrato e devi riuscire a mantenere un po’ di distacco. Anche se si vedono dei morti, le priorità sono l'incolumità personale e della squadra che opera, avendo sempre l'attenzione rivolta alle persone che rispondono sotto le macerie. Ad Amatrice ci siamo coordinati con altri soccorritori e ci siamo diretti dove gli abitanti dicevano che c’erano sicuramente persone da recuperare, non si sapeva se vive o morte. Siamo saliti sulle macerie e abbiamo cominciato a chiamare, a cercare indizi – come materassi, pezzi di rete – per individuare le camere da letto. Il sisma è avvenuto di notte, era ipotizzabile che le persone fossero ancora in quelle stanze».

 

Avete trovato qualcuno vivo?
«Abbiamo estratto dalle macerie dieci persone, ma solo una signora era ancora viva, Abbiamo impiegato tre ore buone per tirarla fuori. I suoi due figli erano morti. Accanto a me, tra i soccorritori, c’era il padre di questi ragazzi, con indosso una maglietta dell’Associazione carabinieri. Era calmo, non piangeva. Abbiamo trovato prima il ragazzo, poi la figlia. Lui ci ha aiutato a ricomporli, a raddrizzare i corpi già irrigiditi. Poi li ha accarezzati, ripuliti…».

 

Scene strazianti, sopportabili solo nella speranza di salvare qualcuno?
«Quando si estrae qualcuno ancora vivo è una grande soddisfazione, anche se non è detto che sia fuori pericolo. Quando il corpo è compresso, il sangue circola più lentamente. Quando viene liberato si rischiano emorragie. Se sono morti, ricomponiamo i corpi per ridare loro dignità e li mettiamo nei “sacchi salma” per non esporli alla vista degli altri. Se ci sono familiari vicino, cerchiamo di confortarli. Ci facciamo coraggio tra di noi e ci incoraggiamo a vicenda. Riuscire a portare speranza ad una popolazione colpita da un terremoto è un’esperienza toccante, il lavoro che fai ti segna, il ricordo ti resta impresso. Speriamo che si riesca a ricostruire i paesi colpiti e ad aiutare la popolazione e a recuperare i beni culturali di cui questi luoghi erano ricchi».

 

Foto di Umberto Paciarelli

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