Sicilia, la lunga storia della (de)industrializzazione

L’industria chimica in Sicilia va verso la dismissione. Il polo di contrada Tabuna, a Ragusa, ha chiuso a dicembre 2024; lo stesso dovrebbe avvenire per Priolo entro il 2025 e poi per Brindisi in Puglia. Sono gli ultimi tasselli di una vicenda lunga 60 anni. L’industrializzazione fu avviata negli anni 60 -70 con numerosi progetti industriali: essi costituirono a lungo una nuova prospettiva di sviluppo e di benessere, quasi una chiave di svolta per il meridione che nel dopoguerra cercava di uscire dal baratro della povertà e di lasciarsi alle spalle i decenni dell’emigrazione. Termini Imerese, Gela, Priolo Gargallo, Ragusa furono i nodi di questo grande progetto di industrializzazione che si è rivelato con i piedi d’argilla.
Le cronache degli ultimi decenni sono piene delle grandi proteste per la progressiva chiusura del petrolchimico di Gela (oggi parzialmente riconvertito in bioraffineria). Attivo dagli anni 60 per iniziativa di Enrico Mattei, il polo petrolchimico di Gela fu uno dei più importanti complessi industriali di raffinazione, trasformazione e stoccaggio di idrocarburi, creato per lo sfruttamento e la trasformazione del greggio scoperto nelle zone di Gela e Ragusa e realizzato dall’Anic. Dal 2014 l’impianto risulta dismesso. Ma gli anni che hanno preceduto la chiusura sono stati caratterizzati dalle proteste per la perdita dei posti di lavoro e per l’impatto fortemente negativo che la chiusura del polo industriale ha avuto sull’economia locale e sulla vita di tante famiglie.
Nel 2014 si è conclusa la dismissione della raffineria, dopo la chiusura dell’ultimo impianto produttivo chimico nel 2007. Da quella data inizia la progressiva riconversione industriale. Oggi a Gela esiste solo la bioraffineria e gran parte degli impianti sono già stati smantellati. Ma il mostro d’acciaio continua a esistere, memoria ancora oggi di un passato industriale che è durato solo qualche decennio, ma che ha prodotto più guasti che benessere. Oggi resta un sito fortemente inquinato, un tasso di mortalità nettamente superiore rispetto a quello di altre zone d’Italia, la scoperta di impianti di lavorazione altamente inquinanti dove gli operai permanevano senza le dovute protezioni e magari con tute da lavoro che venivano portate anche a casa. Dove magari un frugoletto si rannicchiava felice saltando tra le braccia di papà quando questi tornava a casa dal turno di lavoro.
A Gela per decenni si è respirata aria inquinata. E solo negli ultimi anni percorrere la città in auto non comporta la necessità di dover alzare i finestrini per l’odore acre e sgradevole che si sprigionava nell’aria. Negli ultimi tempi sono stati avviati numerosi procedimenti giudiziari contro la raffineria el’Eni, ma anche contro gli organi dello Stato (presidenza del Consiglio, ministero dell’Ambiente, Regione Sicilia, comune di Gela, Arpa, Protezione civile) che avrebbero dovuto vigilare per garantire ai cittadini la salubrità dell’ambiente. Numerose sono le morti per le quali si è accertato il rapporto causa/effetto con la raffineria. Il tasso di mortalità per cancro è nettamente superiore rispetto ad altre città.
Da Gela passiamo a Termini Imerese, dove poco più di dieci anni fa è stata decisa la chiusura dello stabilimento Fiat che nel suo momento clou occupava migliaia di persone (erano 3200 negli anni 80, con un indotto che contava almeno 1000/1500 addetti). Lo stabilimento è stato ufficialmente dismesso il 31 dicembre 2011. Da allora sono state avviate numerose ipotesi di salvataggio e di riconversione che non hanno mai avuto un riscontro oggettivo. L’impianto è stato ceduto alla Blutec e poi alla Pelligra Italia Holding srl. Un accordo sottoscritto lo scorso anno prevede la realizzazione di un polo industriale e manufatturiero green con un interporto per la Sicilia occidentale e una serie di investimenti nella zona per la riqualificazione. Prevista l’assunzione di circa 350 dipendenti ex Blutec.
Ultimo atto, Priolo Gargallo e Ragusa. L’industria di produzione chimica, messa in crisi dalla chiusura di Gela, ma anche dalle nuove norme europee per la produzione, conosce una fase di difficoltà in tutta Europa. La chiusura di Ragusa e quella già annunciata di Priolo che dovrebbe avvenire a fine 2025 porta con se le conseguenze di una profonda crisi economica e occupazionale che si riverbera sulla città e sul territorio. A fine marzo si è svolto a Roma, presso il ministero delle Imprese e del Made in Italy, l’incontro tra il governo, le organizzazioni sindacali, le Regioni, gli enti locali e Versalis per avviare il grande piano di riconversione di quest’ultima per i siti industriali di Ragusa, Priolo e Brindisi. Il piano prevede un investimento complessivo di 2 miliardi di euro e ha tre macro-obiettivi: sostenibilità sociale, con impegni sulla salvaguardia occupazionale del personale diretto e dell’indotto; sostenibilità ambientale, con lo sviluppo di nuove e avanzate piattaforme a basso impatto ecologico: sostenibilità economica, con garanzie sugli investimenti
Ragusa dovrebbe ospitare un nuovo centro polifunzionale che dovrebbe fungere da “ponte” tra Gela e Priolo, supportando le filiere della bioraffineria e sviluppando nuovi business in ambito bio. Dovrebbe sorgere un agri-hub per la produzione di oli vegetali per alimentare le bioraffinerie di Priolo e Gela, provenienti da coltivazioni locali, un centro sperimentale di riciclo meccanico avanzato delle plastiche, finalizzato sia al recupero delle plastiche riciclabili, sia della parte non riciclabile, che sarà raccolta e lavorata parzialmente e destinata al riciclo chimico di Priolo, e infine un centro di competenza per l’alta formazione al servizio delle attività industriali di Eni in Italia e all’estero. I nuovi investimenti dovrebbero essere avviati tra la fine del 2027 e l’inizio del 2028. Per ora è solo un progetto, ma l’accordo è stato siglato da tutte le parti in causa. Tra tre anni si potrà verificare se le promesse saranno mantenute. Una decina di dipendenti dello stabilimento di Ragusa saranno nel frattempo impiegati nelle attività di chiusura e di costruzione delle nuove unità produttive.
C’era una volta l’industrializzazione in Sicilia. Nata per volontà di aziende che non avevano in Sicilia il centro decisionale. Uno sviluppo sorto all’improvviso e che sembrava destinato a soppiantare l’economia agricola e zootecnica, fiore all’occhiello di un’isola baciata dal sole. Mentre solo troppo tardi si è cominciato a comprendere che l’Isola in questi anni ha rischiato di mettere da parte la sua identità più vera, quella che ruota attorno all’agricoltura, alla cultura, al turismo. Si è fatto poco o nulla per salvaguardare i siti e i litorali sabbiosi, men che meno per salvaguardare il ricco patrimonio archeologico e architettonico. Le città siculo-greche saccheggiate dai tombaroli (emblematica la Dea di Morgantina venduta al Getty Museum), i siti abbandonati (emblematico il crollo, ormai irreversibile, delle fortificazioni e delle mura dell’antica colonia greca di Camarina), completano il quadro di un abbandono che è prima di tutto sociale e culturale. Non si è mai impressa una direzione di marcia che fosse in linea con la vocazione dell’isola e non si è valorizzata la produzione agricola in una terra baciata dal sole. In tutto questo, le responsabilità dello Stato centrale si intrecciano con quelle di una Regione siciliana dove l’autonomia non ha prodotto i risultati sperati, risultando spesso soprattutto un terreno fertile per il clientelismo più sfrenato e lo sperpero delle risorse pubbliche a beneficio di pochi e non per lo sviluppo di molti in una prospettiva di grande respiro.
C’era una volta l’industrializzazione in Sicilia. E ha prodotto risultati veramente grami. Mentre oggi si assiste nell’isola a una nuova forma di emigrazione. E non è più quella con le valige di cartone. Stavolta è l’emigrazione dei cervelli, dei tanti giovani siciliani che negli ultimi decenni scelgono di laurearsi e specializzarsi nelle università del Nord Italia e di scegliere altri lidi per la propria vita. Perché la Sicilia offre veramente troppo poco oltre i confini ristretti di poche enclave di potere, spesso legate alle parti politiche. Quasi ogni famiglia vede i propri figli, specie se laureati in alcune discipline, soggiornare e vivere in altre città. Tutto questo non sarà senza conseguenze. Cambierà la struttura sociale e demografica dell’isola. Oggi lo si vive con uno sguardo preoccupato rivolto al futuro.