I “Filosofi” di Nesterov

In prima traduzione italiana due testi sconosciuti di Florenskij e Bulgakov, due grandi della cultura russa
M. Nesterov, Filosofi, 1917 – Galleria Tret’jakov, Mosca, Pubblico dominio, Wikimedia commons

Mosca. Tra le collezioni della celebre Galleria Tret’jakov, un quadro di Michail Nesterov, pioniere del simbolismo in Russia, calamita l’attenzione del visitatore sia per la tecnica che rivaleggia con la fotografia, sia perché, osservandolo con attenzione, sembra quasi di percepire i pensieri e le riflessioni dei due personaggi ritratti mentre passeggiano sullo sfondo di un paesaggio montano. S’intitola Filosofi, e lo furono realmente: quello in tonaca bianca Pavel Aleksandrovič Florenskij, sacerdote, teologo e matematico considerato il “Leonardo da Vinci russo” per la profondità con cui affrontò i più diversi campi del sapere; l’altro in abito borghese scuro Sergej Nikolaevič Bulgàkov, filosofo idealista e studioso d’arte. Per Andrea Sartori «il quadro di Nesterov rappresenta non solo due amici che si stimavano, ma anche due aspetti dell’anima russa portati ai massimi livelli: il pensiero religioso ortodosso e il pensiero filosofico».

Diverso tuttavia fu il loro percorso spirituale: se Florenskij non dubitò mai dell’esistenza di Dio, quello di Bulgakov – lui pure sacerdote ortodosso – fu più tormentato: perse infatti la fede avvicinandosi al marxismo. In seguito tuttavia si distaccò dal pensiero di Marx e rinnegò la sua fiducia nella rivoluzione proprio durante i moti del 1905. Ritornò alla fede ortodossa solo nell’esilio a Parigi. Entrambi sono ora accomunati anche dalla prima traduzione in italiano dal russo di alcuni loro testi.

Oro di Florenskij, edito da Nino Aragno con testo russo a fronte, si può considerare un vero e proprio “poemetto testamentario”: è infatti l’ultima produzione letteraria del geniale figlio dell’attuale Azerbaigian, scritta nel 1934 durante la prigionia nel gulag sovietico delle Isole Solovki, a 250 chilometri dal circolo polare artico, prima di venir fucilato nel 1937. Dedicata al figlio minore Mik (Mikhail), quasi presentendo che questi sarebbe rimasto orfano, l’operetta si configura come un’istruzione apposta per lui, che nella finzione poetica è rappresentato da un ragazzo di nome Oro, unico discendente di una famiglia di oroceni, un popolo di etnia mongola dell’estremo oriente siberiano, che derivava il proprio nome da oro, ossia “renna”, un animale sacro per quelle genti. Di Oro – l’estremo canto di un condannato per il giovane figlio che deve prepararsi ad affrontare le inevitabili difficoltà della vita – riporto qui la commovente dedica iniziale:

Tu hai visto la luce, povero Mik,/quando tuo padre, in un momento di torbidi,/si salvò solo fuggendo e vivendo,/murato tra tombe – /le tombe dell’anima. Posso forse chiamare/diversamente la casa dei matti? Un ladro/aveva gabbato la loro ragione e il grido/vuoto si era raggelato. Mi ero intrufolato da loro,/lì l’aria di notte si riempiva/di frammenti di corpi frantumati –/di passioni impersonali, ancora vive;/lì c’era il lamento di sofferenti irrequieti,/sebbene il destino avesse loro cambiato/in tenebra il carcere medico./Purtroppo in un anno terrificante di fame/quale regalo si potrà trovare?/Ho cercato intorno cosa dare a Mik/e ho trovato il dono: la grazia./Io vorrei che la quiete di Dio/ti proteggesse, piccolo mio.

Ed ora Bulgakov, il cui Giuda Iscariota, l’apostolo traditore (EDB) comprende due saggi sul «figlio della perdizione», scritti negli anni ‘30 e ‘40 del ‘900 durante l’esilio parigino. In essi l’autore, morto nel 1944 appena compiuto un commentario all’Apocalisse che sarebbe stato pubblicato postumo, indaga il mistero di quest’uomo e cerca il senso profondo di ogni sua azione tramite una ricostruzione storica e al tempo stesso psicologica e teologica, che non accetta l’immagine comune del ladro e dell’avido capace di vendere il Maestro per 30 denari. Nell’Iscariota, infatti, Bulgakov vede colui che, attraverso la consegna di Cristo, prende parte alla realizzazione di quel regno messianico atteso sulla terra che Gesù stesso, ai suoi occhi, tardava a realizzare. Il suo tradimento troverebbe dunque motivazione in un atto politico, finalizzato a costringere Cristo a rivelarsi per quello che era realmente, come l’instauratore del regno terreno del Messia.

Tra le parole conclusive di questa ricerca, che a Michel Niqueux, esperto di letteratura e civiltà russa, risulta «una delle più profonde analisi esegetiche e teologiche del dramma di Giuda che si possa trovare», leggiamo: «Cristo andò verso la passione e la morte di croce e si “compì” nella pienezza dell’universale inveramento anche questo tradimento sacrificale… Ma al di là della tomba, prima anche del ladrone pentito, Giuda fu il primo che Cristo incontrò, il “traditore pentito”, che “era andato a impiccarsi”. Qui entriamo nel territorio del mistero, che va oltre noi».

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons