​Quale cultura politica?

Dalla nuova legge elettorale all'ipotesi delle elezioni come alternativa al nuovo governo del Conte 2, abbiamo chiesto l'opinione del professor Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all'Università del Molise e direttore del centro studi Tocqueville-Acton, espressione di una cultura che si propone come liberal democratica
Sulla crisi del governo Conte e la formazione di una nuova maggioranza tra M5S e PD abbiamo chiesto il parere di alcuni esperti portatori di visione culturali diverse. Questa l’opinione del professor Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise e direttore del centro studi Tocqueville-Acton, espressione di una cultura che si propone come liberal democratica
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Considera necessaria una nuova legge elettorale per evitare il rischio di concentrazione di potere in un solo partito?

Una nuova legge elettorale non la vedo all’orizzonte e forse non sarebbe neppure opportuno che l’attuale classe politica si dedicasse a discussioni e trattative per l’ennesima legge elettorale, illudendosi che una soluzione di tipo puramente procedurale possa sanare un problema che invece riguarda la cultura politica prevalente nel nostro Paese. Non vorrei essere frainteso, credo che il sistema elettorale sia fondamentale, ma che non ne esista uno perfetto, identico per tutti e valido per tutte le stagioni.

Può fare un esempio?
Sturzo nel ’19 era un proporzionalista, bisognava rompere le incrostazioni di un mondo feudale, la cui rappresentanza era monopolizzata dal notabilato locale. Sturzo registra la nascita della società di massa, la fine di un assetto istituzionale ancora legato agli schemi dell’ancien règime, e vede nel sistema elettorale proporzionale uno strumento per includere nuove categorie e dare una qualche rappresentanza agli esclusi di sempre, cattolici compresi, rompendo il monopolio della destra e della sinistra storica. Lo Sturzo che rientra in Italia dopo 22 anni di esilio è un maggioritario convinto, senza negare le ragioni che nel ’19 lo spingevano nella direzione proporzionalistica. Le condizioni erano mutate, grazie all’avvento dei partiti di massa e all’istituzione del suffragio universale, il processo d’inclusione politica era avviato, il problema che Sturzo registra come fondamentale nel Secondo dopoguerra è la governabilità e l’assunzione di responsabilità da parte dei partiti politici, divenuti ormai il “deus ex machina” della vita politica, economica e culturale del Paese. Il sistema maggioritario, con collegi uninominali, agli occhi del vecchio leader popolare, appariva il più adatto a garantire la governabilità ai cittadini e la responsabilità dei partiti nei confronti delle ancora fragili istituzioni democratiche. Con questo intendo dire che il problema della politica è l’individuazione di un assetto istituzionale che limiti la discrezionalità di chi – pro tempore – è chiamato a detenere il potere; e il sistema elettorale non è che un frammento di tale assetto, per quanto importante. La democrazia, ci insegna Sturzo, accanto a personalità come Popper, Sartori, Bobbio e tanti altri, nel contesto della cultura politica liberale, non è il governo del popolo, ma il reggimento istituzionale che meglio di altri controlla i pochi che sono stati chiamati dai molti a governare.

Quale sistema elettorale ritiene migliore per il nostro Paese oggi?
Non esiste un sistema elettorale perfetto, esistono sistemi che, in un determinato momento storico e in un determinato contesto sociale, esprimono meglio di altri la rappresentanza politica, tale per cui chi governa non possa fare troppi danni. Credo che ancor prima di parlare di legge elettorale, dovremmo ragionare su una riforma della rappresentanza politica che riveda la struttura democratica dei partiti, il loro finanziamento e il loro rapporto con l’istituto parlamentare, evitando che il partito politico si trasformi nel nuovo “dio mortale”, sovrano assoluto, dal quale dipende la democrazia del Paese. Una democrazia partitocratica è una democrazia in cui due-tre Caligola decidono le sorti di un intero Paese, dipendendo da loro la scelta dei parlamentari, dunque, del governo, delle commissioni, delle authorities, delle partecipate, delle televisioni, delle Asl, delle università e via dicendo; una democrazia ridotta a oligarchia, posseduta da capi partito, azionisti unici di un sistema estrattivo, condannato al declino.

Vede possibile, alla lunga, e su quali basi, una visione comune di governo tra PD e 5 Stelle?
Fino a ieri (non in termini metaforici) il PD, almeno a parole, esprimeva una cultura politica liberaldemocratica e sosteneva un modello di democrazia di tipo “rappresentativo”. Il movimento 5S invece rivendicava fieramente una cultura politica di tipo “populistico” e proponeva un modello di democrazia di tipo “diretto”. Il populismo dei 5S, fieramente rivendicato dal premier Conte nel definirsi “l’avvocato degli italiani”, oltre al fatto che parlamentari, membri del governo e lo stesso Conte ebbero a chiamare la “loro” manovra finanziaria la “manovra del popolo”, mal si concilia con la cultura liberaldemocratica, di qualsiasi tipo. Non è un caso che, nel discorso d’incarico, Conte abbia parlato di “nuovo umanesimo” e di “biodiversità dei mari”; insomma, come dire, parliamo del clima e della scomparsa delle stagioni, così non litighiamo e un governo lo facciamo. Non vorrei apparire disfattista (peraltro “disfattista” era una classica accusa che il regime fascista rivolgeva ai suoi oppositori), ma non ho condiviso affatto l’operazione che ha portato al governo Conte bis, per la semplice ragione che a un simile esito si sarebbe dovuti o potuti (dipende dalla prospettiva che ci si prefigge) giungere dopo un processo di profonda revisione e discussione delle culture politiche del PD e del movimento 5S. Ciò non è avvenuto e l’operazione è stata percepita per quella che è, un “gioco di palazzo”, dove Renzi ha imposto la sua linea per non perdere la pattuglia parlamentare e per avere il tempo di preparare il suo nuovo partito, i 5S hanno conservato i seggi in parlamento che difficilmente riconquisterebbero se oggi si tornasse al voto.

E Zingaretti?
Zingaretti ha subìto la pressione dei suoi parlamentari filorenziani e ha fatto di necessità virtù: giocare un ruolo da protagonista nella prossima, imminente, tornata di nomine pubbliche. In altre parole, a breve non vedo nessuna convergenza, se non su alcuni significativi interessi, alla lunga si vedrà. Ad ogni modo, delle due l’una, o il PD si converte al populismo o i 5S si convertono alla liberaldemocrazia e, in entrambi i casi, non sarà un processo rapido e indolore per entrambi e per il Paese. L’alternativa sarebbe stato il ritorno al voto e una sfida aperta e democratica a Matteo Salvini, nel momento in cui il leader leghista è elettoralmente più debole (pur sempre fortissimo). Mi si dirà che si sarebbe corso il rischio che Salvini vincesse, giusto, ma “è la democrazia bellezza” e non c’è altro modo per limitare Salvini che sfidarlo e batterlo democraticamente, come nel ’48 De Gasperi sfidò e sconfisse il PCI di Togliatti e il Fronte Popolare. Non capire questo significa condannare il Paese a un governo inconcludente e affidare a Salvini il ruolo dell’oppositore trionfante.

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